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La realtà lo annoiava, così narrò il fantastico A Roma si rilegge la fiaba del Principe infelice

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Scrittorisuperstar alla Rowling riempiono gli scaffali, intasano le classifiche dei best seller, s'intrufolano nel cinema. Creano non solo schiere di fan ma anche di cloni. Libroni di 500 pagine e passa vengono divorati da famelici giovani lettori. E anche dai rispettivi mamma e papà. Insomma, se l'invenzione va in cerca di mostri, di iperrealismo, di invenzioni fantastiche, resta difficile capire perché un nostro grande autore del Novecento, che ha inventato personaggi irreali quanto la lingua con i quali li racconta, che ha nascosto la realtà dietro una raffinata e smodata fantasia, resti poco conosciuto ai più. I quali, conformisticamente, altri non nominano che i soliti notissimi nanuncoli della scrittura. Quelli dei libri in serie, sulle passerelle sempre e comunque. I Sepulveda o gli Erri De Luca, tanto per rimanere tra favola e realismo politicamente corretto. Il dimenticato si chiama Tommaso Landolfi. Un gigante come Gadda, che pure ha solida fama, non foss'altro che per «Il pasticciaccio». Più grande di Buzzati, che anche il cinema, con il «Deserto dei Tartari», ha coccolato. Invece Landolfi resta un appartato, così come lo è stato in vita. Eppure ha vinto uno Strega e un Campiello (quando Strega e Campiello laureavano i grandi della letteratura), un Viareggio, un Bagutta, un Pirandello. Adesso Roma, con Zétema, leva un po' di polvere. Domenica prossima e poi il 6 e il 13 febbraio alla Casina di Raffaello, la ludoteca di Villa Borghese, si legge per i bambini «Il principe infelice», una favola che Landolfi mandò alle stampe nel 1939. Già la favola, un genere in perfetta coerenza con il mondo letterario di Landolfi, sostanzialmente annoiato dalla realtà, dalla storia. E dunque narratore nelle cifre del grottesco, dell'orrido, del fantastico. Uno che non credeva nella vita, come nel valore delle sue opere. E dunque se ne astraeva, ci rideva su. Landolfi era meridionale e nobile. Una sorta di Gattopardo, nato Pico Farnese, in provincia di Caserta (e ora di Frosinone). Parecchio vitellone, stregato per tutta la vita dal gioco, che è poi fuga dalla realtà. Ecco allora i suoi temi. Donne strambe e strane relazioni, come quella tra la serva Maria Giuseppa, protagonista di uno dei suoi primi racconti (in «Dialogo sui massimi sistemi», 1937) che «camminava sempre con un rumore da far spavento» e il suo padrone. Ecco Gogol (e come non poteva ispirarlo il surreale autore de «Il naso«?) del quale si inventa un'improbabile compagna, una donna di gomma, gonfiabile e capace di essere plasmata a piacimento del marito. Ecco le creature mostruose che lo perseguitavano come la sua vera, kafkiana ossessione, un ragno. Ecco le blatte, e la donna-animale, capra o sirena, impossibile da capire, da amare, da possedere («La pietra lunare«, 1937). Ecco il caso, che domina la sua vita di giocatore e che dà il titolo al libro che gli frutterà il Premio Strega («A caso»). Insieme ai personaggi Landolfi manipola, storpia, rielabora la lingua. Crea un suo vocabolario di parole astruse. Affascinando così critici letterari «conservatori» come Carlo Bo («Landolfi è il primo scrittore dopo D'Annunzio ad avere il dono di giocare con la lingua italiana e di poterne fare ciò che vuole»). O engagé come Italo Calvino, che ne cura nel 1982 un'antologia e che scrive: «Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l'esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto se stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via». Un personaggio così non poteva credere nelle «magnifiche sorti e progressive» dipinte dalla sinistra. Anche per questo, dopo la guerra, Landolfi - che pure era stato antifascista e che per ciò nel 1943 fu messo in cella, per un mese, alle Murate di Firenze - se ne restò fuori dal coro, più conservatore, anzi quasi reazionario per quel suo modo di non mischiarsi con i tribuni. Piuttosto lui, che si definiva «ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale» sfuggiva al determinismo chiudendosi nei casinò, ipnotizzato dalla danza della pallina nel vortice di una roulette. Ne racconta, negli anni Sessanta, nei diari di «Rien va» e di «Des mois», pubblicati dalla gloriosa Vallecchi. Addirittura, sceglie di vivere a San Remo. di annegare il fatalismo nelle sale da gioco. Stabilendo così un'equazione tra scrittura e roulette. Gianfranco Contini lo chiama «ottocentista in ritardo» ma ben sa che «in una architettura tradizionale racchiude elementi di modernità». Vale la pena di rileggere questo dandy che nel «rischio del gioco e di una letteratura d'artificio polemizza con una vita che è solo banalità, indifferenza, alienazione». Ci aiuta Adelphi, che sta ripubblicando le sue opere, compreso «Il principe infelice e altre storie per bambini». Un antidoto alle indigestioni di scialbi autori superstar di oggi.

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