La mia amante è la poesia
Torna, scandaloso e sontuoso, Charles Baudelaire. In un «Diamante» della Salerno («I fiori del male», a cura di Davide Rondoni, postfazione di Andreina Sirena, pp.520, euro 22) e in un «Mammouth» della Newton Compton (a cura di Massimo Colesanti, pp. 944, euro 14,90). Torna con la sua fecondità febbrile e funerea, e noi non possiamo se non profonderci in nuovi esercizi di ammirazione. Perché nei suoi versi ci sono il rango della classicità e il ghigno che la sfregia, l'impeto romantico e la sua sconsacrazione, l'annuncio dell'estetica decadente e il superamento di ogni bellezza che si esaurisca in se stessa, la modernità e l'oltre, l'uomo con la sua inesausta cerca di senso, e il male di vivere, e la nostalgia di Dio, e il vagheggiamento della bellezza, della forma, della norma, e il gioco cattivo a chi è più bravo nell'arte della distruzione. Nell'«architettura profonda e incompiuta» (Rondoni) dei «Fiori del male», c'è il grande Charles, e ci siamo noi, con in braccio la Noia. Nella sua dedica «Al lettore», Baudelaire presenta questo mostro «basso, velenoso e immondo», pronto a «ingoiare il mondo» e a ingoiarci: «Occhio greve di pianto involontario/ sogna impiccagioni fumando la pipa tranquillo./ Tu lo conosci, lettore, questo mostro sedentario,/-ipocrita lettore,- mio simile,- fratello». Già, ma come esorcizzare il «Mostro»? Charles Baudelaire ci provò facendo, nel 1848, il suo Sessantotto. Il suo Maggio fu quel lontano Febbraio in cui esplosero in tutta Europa moti liberali, patriottici e variamente rosso-cromati. Anche Parigi, «esperta» in materia, ebbe la sua rivoluzione . Lo scenario? Luigi Filippo abdica, viene proclamata la Comune, Charles, animato da bollenti spiriti barricadieri, va in giro armato, gridando che ammazzerà il patrigno, il generale D'Aupick, che ha sposato la sua amatissima mamma. Poi, Luigi Napoleone Bonaparte spenge gli ultimi focolai della rivolta. Nel 1851 viene sciolto il Parlamento, nel 1852 il «salvatore della patria», con un plebiscito, si fa proclamare imperatore. Un altro Napoleone per la Francia: il terzo. Un altro Impero: il Secondo. Una «festa» per la borghesia ben pensante. E Baudelaire? Libertario e aristocratico, ha già capito che la sua «rivoluzione» è la poesia, e di quella si arma, contro tutto e tutti. Anche curando la propria «immagine». Così lo ricorda l'amico fotografo Nadar: «Nella mano guantata di rosa pallido, portava il suo cappello, superfluo per la sovrabbondanza di una capigliatura a boccoli nerissima che gli ricadeva sulle spalle». Fiero del suo dandismo, scrive alla madre: «Non sono fatto come gli altri uomini». Vive lussuosamente e voluttuosamente, cerca «femmine folli» fuori della cerchia borghese, tra prostitute ed attrici. E, mentre comincia a «coltivare» «I fiori del male», che saranno pubblicati (e processati per oltraggio al buon costume) nel 1857, frequenta il Club des Hascinchins e «vola» verso i «paradisi artificiali» dove l'artista si libera dalle pastoie del conformismo sociale e dal tedio esistenziale e metafisico dello «spleen». Entrando in contatto con l'Ignoto. Con la benedizione di angeli ribelli come Edgar Allan Poe, svelato dalla poesia-manifesto «Il Corvo», che Baudelaire venera. Cresce l'inquietudine dell'«uomo in rivolta», ebbro di un Assoluto che ora è Dio, ora è Satana. Sempre indossando, però, i panni della Bellezza che attraverso il dolore redime e sublima. Tra vertici e abissi, la Poesia gli è compagna fedele. È la sua Donna, provocante e fascinosa. Unica. Perché desiderare la donna d'altri?