Addio Mario Scaccia L?attore aveva 91 anni
Eraricoverato da più di un mese per un male incurabile che lo aveva costretto a interrompere le repliche romane al Teatro Arcobaleno del suo spettacolo autobiografico «Interpretando la mia vita», tratto dal libro omonimo pubblicato dall'editore Paolo Emilio Persiani nell'aprile del 2009. La sua ultima comparsa sulla scena era avvenuta proprio per il debutto di questa nuova esperienza il 3 dicembre scorso, mentre il suo esordio teatrale risale alla prima infanzia e l'attore lo descriveva sempre con entusiasmo, orgoglio e soddisfazione: «Avevo tre anni e fui convocato da mia zia a sostituire una bambina perché tanto avevo i capelli lunghi». Da allora la vocazione divenne tutt'uno con un destino segnato di cui però l'attore non si è mai insuperbito né vantato in settant'anni di prestigiosa carriera. I suoi modi garbati e gentili, una sapienza scenica alimentata da consapevolezza espressiva e da inconfondibili doti vocali, la sua sincera e professionale adesione a ogni iniziativa culturale, la dedizione e la fiducia nei giovani, colleghi o spettatori che fossero, la scommessa quotidianamente vinta di un mestiere amato all'inverosimile, eppure tanto ostacolato dalla società, restano scolpiti nella memoria di chi l'ha conosciuto. Reduce dalla Seconda Guerra mondiale in cui visse una rocambolesca avventura di prigionia che così commentava: «Mi aveva marchiato l'anima dandomi il senso delle cose e il distacco da esse, nonché spogliato lo spirito d'ogni retorica», Scaccia si era iscritto all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica «Silvio d'Amico» nel 1945 per diplomarsi nel 1948, ma già due anni prima era uscito allo scoperto con il «Woyzeck» di Büchner. Interprete fantasioso e versatile, era convinto che un attore potesse diventare un artista soltanto qualora avesse «la disinvoltura e la naturale dimensione di una creazione fantastica» perché «recitare bene è raccontare se stessi, non il personaggio, far parlare i silenzi, non riferire le parole, non tanto imparare la parte quanto farsi possedere da essa». Nel 1961 formò la Compagnia dei Quattro con Franco Enriquez, Valeria Moriconi e Glauco Mauri: fu Shylock ne «Il mercante di Venezia» nel 1967-68. Gli autori del suo cuore furono di sicuro Petrolini, basti pensare all'indimenticabile «Chicchignola» o «Mustafà» o «Nerone», e Molière, di cui incarnò Orgone ne «Il Tartufo», Arnolfo ne «La scuola delle mogli», e poi «L'avaro». Numerosi sono, inoltre, i personaggi che ha sentito «congeniali»: gli shakespeariani Polonio, Menenio Agrippa, Malvolio, Oberon e poi il beckettiano Vladimiro o le creature di Ionesco. Considerava un suo cavallo di battaglia il Fra' Timoteo de «La Mandragola», da lui riallestita anche in anni recenti. Il suo mito era Memo Benassi e si onorava anche di un incontro con Eduardo De Filippo che aveva lodato e rispettato la sua dignità d'attore, andando pure fiero di aver recitato le poesie di Sandro Penna. Si divertiva a scherzare con la percezione del tempo che passa: «Nessuno come un attore, che, per il suo lavoro, ha il senso dell'effimero e il distacco dalle passioni dovrebbe essere in possesso dello spirito ironico. Eppure la maggior parte degli attori italiani ne sono assolutamente privi. Probabilmente si reputano eterni». Così giudicava la vecchiaia: «L'unico aspetto malinconico è che quando vorresti raccogliere un oggetto caduto a una signora, non puoi farlo e sembri indifferente e maleducato come gli altri, ma invece il problema è che non ti riesci a piegare!». La frase che chiude la sua autobiografia può apparire un testamento: «Il teatro deve farsi meno popolare e più aristocratico. Così mi piacerebbe riaffacciarmi sulla terra fra un secolo per vedere come è andata a finire!».