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Checco e Cetto, italiano perfetto

Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque e Checco Zalone

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Ho sempre pensato che il cinema e la televisione siano uno specchio della nostra società, il grande e il piccolo schermo sono la rappresentazione del nostro tempo. Ecco perché i fatti che mi hanno colpito di più in questi giorni sono il primato stratosferico realizzato al botteghino dal film di Checco Zalone, geniale comico pugliese, e il successo annunciato di Antonio Albanese con la maschera del politicante, Cetto La Qualunque. Due pellicole italiane interpretate da italiani, due sagome deformate e divertenti che animano «Che bella giornata» e «Qualunquemente», fotografano l'Italia del 2011, quella che celebra i suoi centocinquant'anni d'unità, la stessa che sembra dividersi su tutto, ma poi si ritrova unita, da Nord a Sud, di fronte allo schermo. C'è in tutto questo qualcosa di vecchio e nuovo, di dejà vu e epifania: il carattere degli italiani. Zalone e Albanese interpretano, fanno emergere con il paradosso, la battuta fulminante, il surrealismo e il comico, quel che siamo con una evidenza disarmante. Pensate a Checco: fa il buttafuori in una discoteca della Brianza, sogna di fare il carabiniere, ma viene regolarmente bocciato. E che fa? Cerca la raccomandazione e si ritrova a fare il guardiano al Duomo di Milano. Immaginate Cetto La Qualunque, l'abbiamo già visto negli sketch televisivi, caricatura del politico che promette tutto e non mantiene niente, sfacciatamente volgare e ignorante, imbonitore e ciarlatano, vestiti e cravatte improbabili, linguaggio da stamberga. Il film si presenta così, con Cetto che comizia: «Mi è stato detto se vengo eletto cosa intendo fare per i poveri e i bisognosi... 'na beata minchia!». Applausi dal pubblico e slogan finale da beffa: «Le elezioni sono come u pilu, non finiscono mai». Checco e Cetto sono due personaggi nei quali convivono opportunismo, cinismo, ingenuità, slanci improbabili di generosità, menefreghismo e avidità, buon cuore e acidità. Sono questi gli italiani? Irrimediabilmente direi che siamo anche questo, ma non solo questo. La nostra caricatura in celluloide è rivelatrice, ci fa sorridere e pensare. Il pubblico esce dalla sala ristorato, rassicurato, appagato e pronto a contraddirsi nelle sue umanissime attività di ogni giorno. Questo scenario iperbolico e credibilissimo del nostro Paese è assimilato dallo spettatore ma completamente incompreso dalla classe degli intellettuali (ammesso che esista), sottovalutato da chi dovrebbe elaborare cultura e dare due o tre risposte alle sfide della contemporaneità. Il nostro cinema è il miglior lettino di psicoanalisi avvolto nella bandiera. Le celebrazioni della nostra unità non riusciranno a renderci più consapevoli di ciò che siamo e da dove veniamo, mentre Checco e Cetto diventeranno due icone alle quali guardare con scherno e compassione: campioni di un tipo umano, perfino troppo umano per essere vero e in ogni caso però così tanto vicino alle sagome che impersoniamo nella vita qualunque. Checco è il nostro affaticarsi di fronte al mondo e ai suoi dilemmi, Cetto la via più breve per fottersene di tutto e gabbare il prossimo suo, tuo, nostro e vostro. Tutto nuovissimo e contemporaneamente confermato dalla storia. Morta la letteratura, messa in una buia e polverosa soffitta la poesia, uccisa la creatività dal pregiudizio e dall'ideologia, ammazzata la lingua dall'università e dai tomi del partito di quelli che la sanno lunga e sono migliori a prescindere, resta il cinema popolare la nostra coscienza nazionale, il nostro giacimento di memoria condivisa, la miniera di immagini e parole dove pescare il meglio e il peggio, il brutto e il bello. Mentre il Palazzo ci offre uno sciatto racconto in prosa, senza i polmoni del romanzo, materiale buono per il rotocalco ma deperibile alla prova della Storia e della memoria, la cinepresa ci restituisce tutto il nostro movimento ed eterno ritorno a qualcosa di riconoscibile come identità, radice, bandiera tricolore su cui avvolgere le nostre cose care. Flashback. L'icona dell'Albertone nazionale, il Sordi capace di farci ridere e piangere, quell'italianissimo tipo che con quel gigante di Vittorio Gassman nella «Grande guerra» dell'italianissimo Mario Monicelli ci regala schioccanti dialoghi sul nostro Essere e soprattutto Non Essere. Cosa c'è di più attuale e politico di questo dialogo tra Giovanni Busacca (Gassman) e Oreste Jacovacci (Sordi)? Giovanni: Senti un po', sei di servizio qui te? Oreste: Me pare. Giovanni: Romano eh? Oreste: Perché? Giovanni: Perché...L'italiano in fanteria, il romano in fureria. Niente è così capace di materializzare il nostro carattere di italiani, la divisione eterna tra Nord e Sud, la distanza e l'unità, la furbizia e l'intelligenza, il pane e la pasta della nostra tavola degli elementi nazionali. Il comico è il genere che ci rappresenta meglio perché senza sofismi e intellettualismi racconta quello che siamo e per opposizione ci ricorda anche i versi di Montale, quel «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo» che anima la nostra intermittente coscienza civile. Quando si risveglia, a sprazzi, ci regala attimi di gioia e orgoglio. Nei tempi di crisi, di smarrimento dell'identità, di insicurezza e ricerca di punti di riferimento, l'italiano non guarda a esempi di stellare grandezza, sa che esistono, li osserva, ma la percezione della loro grandezza si perde in nebulosi pensieri che si chiariscono solo di fronte alla risata che seppellirà ogni dubbio: massì, siamo fatti così, mamma butta la pasta. Ah, i parrucconi diranno che questa non è buona educazione, seriosi alzeranno la bacchetta per raccontarci con tono alto e grave che la storia della nazione è ben altra e il futuro si affronta con l'eroismo e la cultura, il senso del dovere e dell'equilibrio, l'esercizio dell'intelligenza. Belle parole. Le stesse che non ci hanno condotto da nessuna parte perché - tranne alcune eccezioni - viziate dall'ipocrisia, dalla malafede e dal delitto culturale commesso da chi fa il Maestro senza avere granché da insegnare, se non come svelato esempio negativo.   L'italiano che guarda la televisione e va al cinema, quello che legge anche buoni libri, in realtà ritrova se stesso in simboli narrativi trasfigurati dall'allegria. Le prediche sono inutili, i sermoni finiscono nel vuoto, le celebrazioni hanno il sapore della muffa, della polverosa accademia che Giovanni Papini avrebbe voluto abbattere e invece troviamo sempre in cattedra pur non essendo riuscita ad insegnare agli italiani ad essere migliori italiani. Tutto questo è costume, è arte, è comico, è cinema, ma è pure un tutto tremendamente politico che ci riconduce dalla fiction alla realtà, dal grande schermo al piccolo scherno quotidiano, dall'artefatto al misfatto. Un paese unito nella levità, frantumato nella gravità. Uno spettacolo vivente che si autoreplica da centocinquant'anni. Viva l'Italia.  

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