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di GENNARO MALGIERI Di tanto in tanto registriamo, con sorpresa, la straordinaria attualità di Oswald Spengler.

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Maera tutt'altro che scontato, soltanto qualche decennio fa, che la sua morfologia della storia contribuisse, con tanta efficacia, a decifrare fenomeni che ci tengono in apprensione. I cicli storici che egli aveva delineato e sezionato nel Tramonto dell'Occidente sono una traccia interpretativa della quale non possiamo fare a meno, unitamente alle diagnosi di altri studiosi come Arnold Toynbee, Johan Huizinga, Ortega y Gasset. Ma quanto di più politico scrisse, a cominciare da Jahre der Entscheidung, pubblicato in Germania nel 1933 con un titolo che non poteva essere più azzeccato, «Anni decisivi», appunto, sorprendentemente oggi si rivela una sorta di manifesto della crisi europea di fronte alle quale non c'è nessun Cesare, come all'epoca qualcuno impropriamente si riteneva, capace di dominarla. Rileggiamo perciò, nella nuova edizione proposta dalla Editrice Clinamen, curata e tradotta da Beniamino Tartarini, con il titolo «Anni della decisione» (pp. 212, 15,90 euro), la spietata descrizione spengleriana di un mondo in dissoluzione, che se idealmente prosegue il discorso del «Tramonto», se ne distacca perché investe il declino nelle sue implicazioni più immediatamente socio-politiche che morfologico-culturali disegnate queste come inevitabili aurore e rinascite storiche di popoli e civiltà. Gli «anni decisivi» di Spengler si iscrivono nell'ampio libro della decadenza del quale, comunque, costituiscono le pagine della speranza se soltanto dovessero realizzarsi alcune condizioni che, a posteriori, abbiamo capito che erano irrealizzabili per una serie infinita di motivi. Il libro consolidò la fama dello studioso monacense che aveva già messo i tedeschi davanti al loro destino tra il 1918 ed il 1922 con la sua opera più celebrata, assumendosi il compito - come aveva già fatto in Pessimismus?, tra l'altro - di richiamare gli europei alla riscoperta dei loro valori contro l'americanismo ed il bolscevismo, criticando aspramente l'economicismo quale destino finale dell'uomo (L'uomo e la tecnica, resta emblematico quanti altri mai) e mettendo in guardia il vecchio Continente dalla proletarizzazione che stava assumendo proporzioni gigantesche e sulla quale si sarebbe saldata la «rivoluzione mondiale bianca» con la «rivoluzione mondiale di colore». Hitler non accolse con favore l'opera; i nazisti la criticarono aspramente per le allusioni, tutt'altro, al «plebeismo» delle «camicie brune» e perché l'autore era un aristocratico che non gradiva la strumentalizzazione e l'irreggimentazione delle masse. Di diverso avviso fu Mussolini che commissionò la traduzione italiana a Vittorio Beonio Brocchieri, uno dei migliori germanisti dell'epoca, dopo che egli stesso lo aveva segnalato con una recensione anonima sul «Popolo d'Italia». Anche la gioventù tedesca non amò Jahre der Entscheidung: non infiammava gli animi, ma offriva soluzioni di tipo rivoluzionario-conservatore che se fossero state seguite probabilmente la storia avrebbe avuto un altro esito. Spengler non si diede cura delle critiche. Il suo sguardo era rivolto altrove. Agli «anni decisivi» che si approssimavano: gli esiti non riuscì a vederli poiché la morte lo colse nel 1936, a soli cinquantasei anni, alla vigilia della disintegrazione dell'Europa, mentre si affermavano tutte le fosche previsioni che aveva formulato. Consapevole, comunque, che sarebbe accaduto quello che aveva cercato di far comprendere ai suoi contemporanei: l'inevitabile fallimento di tutte le mitologie progressiste che avevano trasformato la civiltà (Kultur, come la chiamava) europea. E concludeva: «Forse già in questo secolo, le ultime decisioni aspettano il loro uomo. Di fronte ad esse i piccoli obiettivi e concetti della politica odierna rovinano nel nulla». Chi può dire che non avesse ragione?

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