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Quel 476 che somiglia tanto al 2000

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diLIDIA LOMBARDI Corrusco e apocalittico, il quinto secolo non si impara a scuola. Eppure è uno snodo fondamentale per la Storia, non foss'altro per quella data, il 476, che segna la fine dell'Impero Romano d'Occidente. Un discrimine tra vecchio e nuovo mondo, tra l'antichità e il Medio Evo, tra il sistema di vita e di valori dei Romani e quelli dell'Islam e dei Barbari. Ed è un «memento» per quanto viviamo oggi, quasi uno specchio di 1500 anni fa, opaco sì, ma nel quale possiamo vederci riflessi. Agli ultimi sovrani della caput mundi Giulio Castelli - narratore, saggista ma soprattutto profondo conoscitore di quel periodo - ha dedicato tre romanzi storici, partendo dal sogno di potere di Maggioriano e arrivando con questo «476 A. D.» all'epilogo che è spesso l'anello mancante della nostra cultura storica. «Succede perché - spiega Castelli - nei tre livelli di istruzione, dalle elementari al liceo, gli insegnanti non riescono quasi mai a finire il programma. Arrivano a malapena a Costantino e l'anno dopo cominciano con gli Ostrogoti». Niente quinto secolo, dunque, né personaggi come Galla Placidia, che per la maggior parte dei visitatori del mausoleo di Ravenna è un punto interrogativo. O Romolo Augustolo, imperatore-fantoccio, salito al trono adolescente. Per non parlare Zenone l'Isaurico, un «carneade» che pure signoreggiò sull'Oriente. In questo «basso impero» Castelli fa muovere i suoi personaggi. Sulle base di documenti storici («fonti spesso contradditorie - dice - e questo contribuisce alle difficoltà di penetrare nell'epoca»), ma anche cucendogli addosso amori e rancori, rimpianti e nostalgie. Così Ascanio, l'io narrante di «476 A. D.», è di fantasia ma Castelli ne fa il nipote di un protagonista vero, Pietro, ministro e consigliere di Maggioriano. Un artificio che permette di dare profondità al racconto, di far muovere uomini e donne sullo sfondo di città affrescate con particolari esatti. Ecco allora Ascanio vivere fino alle estreme conseguenze la passione per Eunice, nobile e sensuale, e poi partire per la Gallia, dove ancora resiste un potentato imperiale, e infine per la Britannia, ospite del gran re, discendente da una famiglia di senatori romani e salito al potere dopo la fine dell'amministrazione centrale. «Ascanio - spiega Castelli - sconta il dolore della consapevolezza. È la coscienza di un mondo che crolla. Invece i contemporanei non si accorsero della fine dell'impero. Era già successo che un esercito avesse deposto un imperatore e che passassero mesi prima dell'incoronazione del nuovo. Nel caso di Romolo Augustolo, Odoacre lo relegò in una villa, pare a Castel dell'Ovo, inviò le insegne all'imperatore di Oriente e chiese il titolo di patrizio degli italiani. Ma il Senato continuò a lavorare, e lo fece per un altro secolo, pur come un guscio vuoto. La gente proseguì a vivere nello stesso modo, la burocrazia a produrre inutili atti. Solo dopo dieci anni di vuoto di potere si percepì il terremoto, sancito dall'ingresso sulla scena italiana di Teodorico». Ma la smagliatura di un ordine sociale e politico produsse fenomeni simili a quelli vissuti nel passaggio dal secondo al terzo millennio. Gli abusi edilizi, quelli che fanno scempio del Bel Paese, furono regola: città saccheggiate, anche con la complicità della Chiesa, che vedeva covi di dei-dèmoni nei templi. Catapecchie, magazzini, botteghe costruiti dentro gli edifici imperiali (da qui le Botteghe Oscure). Alla demolizione dei luoghi corrispose quella dell'amministrazione pubblica. «Concussione e corruzione erano la norma - spiega Castelli - Esattori delle tasse, come i decurioni, coprivano gli ammanchi rispetto alle quote stabilite. I senatori e i latifondisti manovravano per la propria borsa». Alla crisi demografica (Roma passò dal milione di abitanti dell'inizio del terzo secolo ai 500 mila del quinto) corrispose l'immigrazione di stranieri. E se l'impero era laico e la tolleranza religiosa aveva un simbolo nel Pantheon, nelle sue ceneri albergò il fondamentalismo. Pagani contro ebrei e cristiani, ma poi, con Teodosio, cristiani contro pagani, al punto di linciare Ipazia, filosofa e matematica. E ancora, ricchezza concentrata nelle mani di pochi, culto della personalità, guardie del corpo, i «buccellari». «La morigeratezza almeno sbandierata - ricorda Castelli - cedette il posto allo scandalo esibito. Il teppismo e le tifoserie violente spadroneggiarono nei circhi e nelle strade». Ecco Eliogabalo, regnante a luci rosse. Ecco le scene da arancia meccanica - aggressioni, stupri e rapine - sotto i Portici Massimi di Roma, che collegavano il teatro Marcello con il ponte di Elio, di fronte al Mausoleo di Adriano. E c'erano pure «talebani»: i monaci, misogini, sessuofobi, intolleranti. Come i guerrieri dell'Islam che impongono i burqa e sognano di far esplodere l'Occidente.

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