Scomodo Gaber
diSTEFANO MANNUCCI C'è un'immagine che meglio di ogni altra rappresenta Gaber, così come noi immaginiamo che sia oggi, a otto anni dalla sepoltura nel famedio di Milano. È una foto di scena da "Il Grigio": Giorgio è sdraiato su un lenzuolo bianco, le braccia allineate lungo i fianchi: la posa di chi non c'è già più, ma gli occhi sono aperti, l'espressione compunta, pensierosa. Guarda in alto, oltre il soffitto, lassù dove riusciva a far volare i suoi pensieri di "irregolare". Questa sorta di "autobiografia per parole e immagini" dell'artista, pubblicata da Chiarelettere (59 euro) e realizzata dalla Fondazione Giorgio Gaber è intitolata (parafrasando una delle sue migliori canzoni) "L'illogica utopia". Il fotografo e giornalista Guido Harari, che l'ha curata, sottolinea che il nome del volume indica la speranza che il Nostro coltivava nell'avvento di "un neorinascimento, un nuovo umanesimo e, con esso, un individuo nuovo, fatto di privato e di politico", in quel secondo Novecento italiano devastato dalle ideologie e dagli "ismi" di ogni specie. Era scomodo come accade solo agli uomini liberi: un Pasolini con la chitarra, o un De Andrè che amasse calcare le assi del palcoscenico, ma quelle dei teatri dove raccontava la verità recitando. Senza fare sconti a nessuno. Sfogliando queste pagine, se ne trovano migliaia, di conferme. Sentitelo qui: «Una volta ho domandato a Adriano Sofri: "Ma tu ci credevi veramente nella rivoluzione?". E lui: "Forse non ce lo siamo mai chiesti, o avevamo paura di chiedercelo"». Colpito e affondato. E poi qui: «Da parte della sinistra c'è sempre stata diffidenza nei confronti di chi non è allineato, secondo un'intolleranza che arriva da lontano, da Gramsci, dalla figura dell'intellettuale organico. Io sono di sinistra, ma non sono organico. Mai avuto tessere, mai iscritto a un partito. Ho sempre evitato l'apparato e mai ho cercato l'ispirazione nella linea del partito. Ho il privilegio di raccontare in palcoscenico quello che penso, che di per sé non è necessariamente né di sinistra, né di destra». Quando chiuse gli occhi (apparentemente, perché la foto che ci gela il sangue, riesce anche a scaldarci il cuore) era il primo gennaio 2003. A 64 anni era riuscito a completare un nuovo album, "Io non mi sento italiano", che lo proiettò - evento raro per lui - in hit parade. Di certo, non aveva ancora detto tutto, ma non si era mai morso la lingua aspirando a un "buon tacer". Eccolo di nuovo: «Certe volte, quando sono sul palcoscenico e guardo il pubblico, mi invento più o meno questo dialogo fra lui e me: "Perchè dovrei farvi ridere? Non sono mica un comico". "No, ma sei simpatico". "Simpatico per niente, io vorrei solo dire le mie cosine. Io sono cattivissimo, antipaticissimo, non ho bisogno di compassione né di aiuto, anzi. Vi odio".». In realtà, odiava "l'idiozia conquistata a fatica" che temeva appartenesse anche a lui, e alla quale aveva dedicato uno dei suoi taglienti spettacoli. Ma questo è anche un libro allegro, sornione, geniale, come Gaber sapeva essere sempre. Molte delle immagini raccontano quell'amore vissuto tra la moglie Ombretta Colli e la figlia Dalia, i due pilastri della vita personale. Ombretta conosciuta per caso a Roma, «in una di quelle mie serate di solitudine» in un locale, lei che lo avvicina e gli ricorda che avevano già fatto un servizio fotografico insieme per la sua canzone "Benzina e cerini". Giorgio che pensa a sinistra, ma non vota da una vita, non vuole lavorare con la moglie per evitare strumentalizzazioni, ma quando lei entra in politica con Forza Italia lui ne esalta l'onestà della scelta e la risceglie nella cabina elettorale. Anche questo era uno dei tanti modi con cui Gaber fingeva di essere distratto, smagato, disilluso, un attimo prima di folgorare tutti con le sue verità.