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di TIBERIA DE MATTEIS La vita è desiderio per Giorgio Albertazzi, un mattatore che guarda sempre avanti con leggerezza, libero dal peso degli anni e incoraggiato dalle emozioni del suo mestiere.

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Perconoscerlo ancora di più e meglio si consiglia il monologo di stasera alle 21 al Teatro di Tor Bella Monaca «Il mio Shakespeare», carrellata nei ruoli interpretati in una lunga carriera, ma soprattutto confessione etica e politica sul nostro tempo. Perché sceglie Shakespeare per parlare di sé? È il compagno della mia vita. Alessandro Gassman mi aveva chiesto una serata shakespeariana per l'Olimpico di Vicenza e ho realizzato lo spettacolo più politico che abbia mai proposto. Ho recitato quindici testi del Bardo e ho frequentato quasi tutti gli altri. Voglio presentare un manifesto in questo periodo di collasso in cui non si sa più cosa sia davvero la cultura. Per me non è né informazione né sapere, ma un modo di vivere di un gruppo che parla una lingua in un territorio. La politica è incolta perché si è ridotta a una lotta fra cosche. Il potere fine a se stesso non vale nulla: è la libertà che conta. Cito i testi di Shakespeare, da «Giulio Cesare» a «Otello», che fanno entrare il passato nel presente, lasciandoci prevedere il futuro, ma il mio scopo è elaborare un discorso sull'attualità. Cosa l'ha spinta verso il palcoscenico? Il teatro mi è arrivato attraverso gli altri, per una serie di coincidenze. Non ho avuto la vocazione che mi è venuta soltanto dopo. Ho ammesso di essere diventato davvero un attore quando ho interpretato Amleto a Londra per la regia di Zeffirelli. Figurare lì come unico italiano mi ha dato la consapevolezza del mio mestiere. Qual è il segreto della dedizione del pubblico nei suoi riguardi? La gente ha bisogno del teatro: coagula aspirazioni e sogni che la stessa letteratura non può più fornire. È un'esperienza sciamanica, un suggerimento medianico, un messaggio segreto e cifrato che trasmetti solo se possiedi il duende. Un dono che ha soltanto chi se lo merita. Manolete l'aveva e anche Picasso, che disegnava posseduto da un demone come pure Goya. Come si riconosce il duende? Da ragazzo, alle mie prime esibizioni in pubblico, nei salotti fiorentini, dove mi pagavano con una cena, sentivo che nella consapevolezza di dire parole di altri trasformate in mie, si insinuava improvvisamente una fiamma che le rendeva indistinte da me e pronte a chiedermi ragioni. Ancora oggi, quando sono sul palco, mi sembra sempre la prima e l'ultima volta. Quando la parola diventa emozione? Dipende da come ti rapporti con la vita. Levatemi tutto, ma non di mostrarmi agli altri nudo per capire me stesso. Il testo è solo un tramite. Il teatro è amare con leggerezza penetrante e senza esagerare nella passione, è eros, carnalità, corporeità. Perciò non finirà mai. Nel mondo odierno in cui tutto è finto, indiretto e finalizzato a stordirsi senza sentire, è l'unica realtà non virtuale. Se lei incarna sempre il suo legame con la vita, cosa intende comunicare? Per me la vita è desiderare. La morte sta nella caduta del desiderio anche se sei ancora vivo. La bellezza, essenzialmente femminile, racchiude il dono della grazia ed è miracoloso come in un mondo ormai privo d'equilibrio e di armonia, la donna, madre o amante che sia, conservi questa meraviglia.

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