Omero è qui
diLIDIA LOMBARDI «Cantami o diva del Pelide Achille / l'ira funesta che infiniti addusse/ lutti agli Achei...». Noi, a scuola nell'altro secolo, ce li abbiamo nel sangue, come il dna, i versi fieri e martellanti di quell'erudito illuminista poeta che fu Vincenzo Monti. L'incipit dell'Iliade e la storia di Troia, la teofania di eroi e di dei sta nell'immaginario collettivo. Per fortuna è un caposaldo della nostra formazione. Culturale e civile. Insomma, invera che le conoscenze acquisite a scuola «sono patrimonio che ci accompagna tutta la vita». Lo scrive Eva Cantarella introducendo la nuova traduzione dell'Iliade firmata da Dora Marinari e commentata da Giulia Capo. E si rallegra, la grande studiosa dell'antica Grecia, della sua letteratura e delle sue leggi, che il più tragico poema omerico abbia una nuova traduzione. Perché i nostri figli, come noi, hanno bisogno di quelle storie. Epperò liberarle dal linguaggio aulico, sfrondare la retorica è non soltanto evitare il rigetto della noia. È anche fare maieutica nelle cangianti parole greche, tirar fuori, col colore giusto, il significato che assumono di volta in volta. È rilanciare la forza comunicativa di quegli accidenti che nei cinquanta giorni del decimo anno della guerra tra Troia la felix e i barbari greci cambiarono il mondo affacciato sul Mediterraneo. Questo si sono dette Dora Marinari e Giulia Capo, accettando la scommessa di metter mano a una nuova versione dell'Iliade. Se lo sono dette incontrandosi nel liceo romano «Visconti», la prima preside, l'altra prof di ginnasio. Insomma, in trincea ogni giorno nel confronto con gli studenti. Didascaliche e intellettuali, rigorose e appassionate. Come dev'essere l'insegnante ideale. Spiega Dora Marinari: «Questo lavoro è nato per caso, in una sorta di miei intervalla insaniae. Ero a casa malata, ho ripreso a leggere Omero. E mi sono chiesta: come combattere con il linguaggio paludato del poema, alleggerire i periodi, sciogliere il groviglio degli ottativi, la sintassi sovrastrutturata? Come liberare il canto di vicende raccontate al suono della cetra, nelle strade, dagli aedi? Perché la poesia senza musica non esiste. Tale era fino al Petrarca. E così dobbiamo sentirla noi». Ecco allora la prima sfida. Questa «Iliade» non è in prosa, ma riadotta il verso, inventa una scansione ritmica e logica, restituisce «i ritmi dell'ascolto», come s'accalora a chiamarli la traduttrice. L'altro caposaldo nasce dal significato stesso di epica. Epos è racconto. E non c'è racconto privo di comunicazione. Allora semplificare il linguaggio senza banalizzarlo va al cuore del problema. Sfrondare l'enfasi non è tradurre tradendo. È puntare a un testo chiaro, libero dall'ovvietà quotidiana. Così la terra è «fertile» invece che «madre di frutti». Il mare non è «canuto» ma «bianco di spuma». E il «piè veloce Achille» diventa moderno, nervoso e tormentato se è il guerriero «dal passo veloce». Già, il dubbio delle coscienze, le domande lancinanti sul bene e sul male. Omero canta storie nate nella fucina culturale dell'Asia. Ma le piega all'educazione morale. Il coraggio, il senso della collettività, la libertà di parola, il rispetto, l'onore. Soprattutto l'accettazione del dolore. Gli orrori delle guerra, i lutti si stemperano nell'accettazione, naturaliter religiosa, della vita. L'epilogo di «Iliade», come ce lo spiega Giulia Capo, fa vibrare il nostro gusto estetico e lievitare la nostra mente nell'insegnamento di civiltà: «Tutto è stato messo in discussione e tutto ricomposto». Certo, non «siamo tutti greci» come indicava Shelley. Ma abbiamo bisogno di Omero, hic et nunc, per tentare di volare alto.