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Quel fascismo inesplorato

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diMARIO BERNARDI GUARDI Fascismo, questo sconosciuto? Ha senso porsi un interrogativo del genere di fronte alla sterminata quantità di libri che dagli anni Venti ad oggi è stata dedicata ad uomini e idee, dottrina e prassi, fatti e misfatti dell'Italia di Mussolini? Beh, diremmo proprio che un senso ce l'ha, perché, paradossalmente, il Fascismo di cui si sa (o si crede di sapere) di tutto e di più, è invece, per certi versi, ancora tutto da scoprire. Il lettore non ce ne voglia se, a questo proposito, andiamo a pescare nell'archivio personale. Erano gli anni '80, collaboravamo alla mondadoriana "Storia Illustrata", spesso parlavamo col Direttore, Pier Maria Paoletti, liberale e gran signore, per proporgli questo o quel pezzo. E se l'argomento era il Fascismo, gli andava sempre bene. "Vedete - diceva - il Fascismo è una miniera inesauribile. Quando metto in copertina il nome di Mussolini, un fascio littorio, un'immagine del Ventennio, so che quel numero venderà più copie. E non tanto perché gli italiani siano nostalgici, quanto perché hanno la convinzione che ci sono ancora un sacco di cose da scoprire". Bene, noi più che di "scoperte" - e l'ultimo libro di Francesco Perfetti ("Lo Stato Fascista. Le basi sindacali e corporative", Le Lettere, pp. 450, euro 32) ce ne offre autorevole conferma - siamo convinti che il Fascismo abbia bisogno di una narrazione storica esemplare. E cioè capace di restituirne la complessità "sine ira et studio", tanto per ricorrere a quella citatissima sentenzia tacitiana che funziona sempre. A questo punto, però, ci vogliono ricercatori seriamente intenzionati a fare il loro dovere, dunque impegnati nella ricostruzione della "storia patria" e lontani da ogni distorta ottica "di parte". Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss, capo del Servizio storico al Ministero degli Affari Esteri, direttore della rivista "Nuova Storia Contemporanea", da decenni si è consacrato a questo compito. Davvero arduo e scomodo, perché quanto più sei e vuoi essere liberale, tanto più sei oggetto degli strali dei faziosi: mala genìa che si indigna se dici che lo storico, per natura ed elezione, è sempre "revisionista", come più volte ripeteva Renzo De Felice, riconosciuto maestro di Perfetti. Il quale, oltre ad essere uno storico "armato" (di buoni documenti e di altrettanto buoni argomenti) è anche (si veda "La repubblica (anti)fascista", uscito l'anno scorso sempre per Le Lettere), un vivace polemista, capace di smantellare, "lancia in resta", i santuari del conformismo accademico e massmediatico. Salvo poi tornare a un ruolo più "istituzionale" e cioè allo scavo accurato nel Novecento. E in particolare nel Fascismo: un movimento ideologico- politico che va ripensato, come ben dimostra Perfetti, nel suo "svolgimento" storico, nel suo sviluppo, in quella forte tensione dialettica con le istituzioni liberali - sia pure nell'accezione più conservatrice e autoritaria - e con lo Statuto albertino, che neanche la svolta del 3 gennaio 1925 annulla completamente, visto che il potere del Dittatore non cancella l'autorità del Re. Anche se indubbiamente si va definendo un altro modello statuale, un'altra realtà politica, giuridica, istituzionale e, diremmo, "valoriale", cui Perfetti dedica pagine rapide e sintetiche, ma sempre fondate sul documento e sull'argomentazione serrata. Come è "giusto" che sia perché la "materia" è ricca e contraddittoria, nel senso che il Fascismo ha - e l'avrà per tutto il Ventennio - un'anima "plurale". Perfetti, ragionando sulla milizia intellettuale di Angelo Oliviero Olivetti e di Sergio Panunzio, ne studia un aspetto, tra i più suggestivi: quello che ha al centro il sindacalismo, dalle sue origini rivoluzionarie (nel segno dell'eresia libertario- socialista cara al Mussolini dell'"Avanti!" e poi a quello di Salò), ai suoi approdi fascisti e corporativi. Con tanto di ipotesi post-fasciste, antiborghesi e rivoluzionarie, quali emersero nel celebre Congresso di Ferrara del 1932, tra i "corporativisti impazienti", neri, nerissimi, praticamente rossi.

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