Gaetano Salvemini Amnesia d'Italia
diFRANCO CARDINI Che il ministro Maroni abbia nominato in televisione Gaetano Salvemini, gli ha fatto onore. È comunque riduttivo e inesatto l'averlo riduttivamente presentato come un «federalista meridionale»; mentre è del tutto vergognoso che uno dei protagonisti della vita e della cultura italiane tra fine dell'Ottocento e prima metà del Novecento sia ormai caduto quasi completamente nel dimenticatoio di quell'Italia che pur si appresta a celebrare il suo centocinquantesimo ma che evidentemente non va al di là - almeno nei suoi mass media - della Spedizione dei mille e della Bella Gigoggin col trallalalalalalallero. Ormai, Gaetano Salvemini non si ricorda più nemmeno come esponente dell'antifascismo: il che a me - vecchio fascista che per anni si è dichiarato stufo dell'onnipresente tormentone resistenziale - provoca adesso un senso di profonda indignazione. Ma l'amnesia cronica del Bel Paese va ben oltre, e non da ieri. Ad esempio, invano si cercherebbe perfino sull'ormai «classica» Enciclopedia europea Garzanti la voce Meridionalismo. I «meridionalisti» furono un composito gruppo di studiosi, di politici, di economisti e di pubblicisti di differente indirizzo - liberale, cattolico, socialista - che già dall'indomani dell'unità d'Italia si piegarono ansiosi su quel cumulo di contraddizioni, d'ingiustizie, di violenze e di abusi che, con la conquista del Sud, aveva dato luogo alla «questione meridionale». Tra loro vi furono personaggi come Pasquale Villari, Sidney Sonnino, Napoleone Colajanni, Antonio de Viti de Marco, Francesco Saverio Nitti, Luigi Sturzo, Pasquale Saraceno, lo stesso Antonio Gramsci. Le tematiche da essi sollevate andavano dalla repressione del «brigantaggio» (o del diffuso malessere che come tale era sbrigativamente etichettato e trattato) alla piaga dell'emigrazione alla mancata riforma agraria, all'industrializzazione tardivamente decollata, a un'arretratezza sulla quale non si riusciva a intervenire efficacemente e che qualche volta era anzi mantenuta per tutelare interessi e privilegi. Che i rimedi proposti fossero protezionistici o liberisti e che nel corso della discussione potessero anche affiorare connotati autonomistici, se non proprio federalisti, è vero. Ma è secondario. Ricordando Salvemini, il ministro Maroni ci ha semmai richiamato - involontariamente? - al fatto che la «questione meridionale» non è mai stata davvero risolta. Ma Gaetano Salvemini non fu soltanto un «meridionalista». Pugliese di Molfetta, nato nel 1873, mentre si avviava agli studi storici sotto la guida severa di Pasquale Villari s'iscrisse fino dal 1893 al partito socialista immettendo nella sua appassionata militanza elementi desunti dal magistero di Labriola e di Sorel. Nel 1911 scrisse contro Giolitti un pamphlet tanto feroce quanto documentato, Il ministro della malavita, che riletto oggi fa rabbrividire per la sua attualità e che, cento anni dopo, andrebbe ripubblicato. Fondò il settimanale «L'Unità» e collaborò a riviste come «La Voce». Interventista «democratico» nella prima guerra mondiale, deputato nel 1919, costeggiò sulle prime l'esperienza fascista che lo vide però quasi subito inflessibile avversario: il che lo fece allontanare da vecchi amici quali Giovanni Gentile e soprattutto Gioacchino Volpe - insieme con lui massimo esponente della scuola storiografica denominata «economico-giuridica» - e l'obbligò nel 1925, dopo un periodo di lotta clandestina, a emigrare riparando negli Stati Uniti dove svolse una serrata attività di studioso e di polemista. Cofondatore del movimento di Giustizia e Libertà, l'ormai ultrasettantenne ma lucidissimo Salvemini rientrò in Italia nel dopoguerra, riprendendovi l'insegnamento universitario circondato dall'affetto dei suoi molti allievi, tra i quali alcuni a loro volta illustri storici come Ernesto Sestan. Quando si spense ottantaquattrenne a Sorrento nel 1957, era ormai il riconosciuto «padre storico» del meridionalismo liberalsocialista. Al pari del suo vecchio amico Gioacchino Volpe, Salvemini fu storico in grado di spaziare dal medioevo, con splendidi studi sul comune di Firenze, all'Ottocento e all'età contemporanea. Interprete molto libero e duttile delle tesi marxiane, li coniugò con uno storicismo robustamente nutrito di passione etica: ciò lo condusse a una visione talvolta schematica di eventi quali il Risorgimento e il fascismo, ma non lo allontanò mai dall'esame dei fatti e delle forze storiche attento alla concretezza della realtà e dei suoi condizionamenti sugli uomini e sulle masse. Ancor oggi, riletti a distanza, i suoi studi stupiscono e appassionano per la forza e la generosità che li distinguono. Sempre appassionato, talvolta perfino iroso e ringhioso, fu tuttavia un interprete rigoroso e penetrante del suo tempo. Gli si perdona perfino la faziosità, che talvolta egli non riesce a contenere ma che fa parte della sua prorompente umanità.