di STEFANO LORENZETTO Montanelli soffrì di depressione a partire dai 12 anni.
Credoche non gli interessasse molto la gestione economica. Quando il capo della diffusione un giorno entrò timidamente nell'ufficio di Indro per avvertirlo che le vendite erano scese a 120.000 copie, il direttore alzò distrattamente gli occhi dalla Olivetti Lettera 22 e gli disse: «Troppe. Vuol dire che stiamo sbagliando giornale». Per lui Il Giornale era una Onlus, questa è la verità. I tuoi rapporti con Montanelli erano cordiali, affettuosi. E infatti andammo a colazione con lui al ristorante Santini, che allora stava in corso Venezia, e alla fine, siccome usciva sempre di casa senza portafoglio, mi chiese pure di prestargli 10.000 lire che diede di mancia al cameriere. Riusciva a far bella figura con i soldi degli altri. Un grande. Aveva anche un paio di buchi nel fazzoletto. Penso che non si preoccupasse di nessun aspetto pratico della vita. I Marco Travaglio di turno riportano soltanto cose sgradevoli sui miei rapporti con Indro. Tu sei stato testimone del contrario. Indro mi ha chiesto molti favori, «assumi questo, fa' scrivere quello», anche lui aveva qualcuno che gli stava a cuore, è normale, e io l'ho sempre accontentato. Era una persona molto gradevole, molto signorile. Quando lavoravo al Corriere, sono spesso venuto in questo ufficio a intervistarlo. Di me si fidava. Una volta la segretaria Iside Frigerio mi fece accomodare in sala d'attesa. Stavo lì da pochi minuti quando sentii una voce rauca che mi diceva: «Stronzo, testa di cazzo». Era Montanelli? No, un merlo indiano parlante, chiuso dentro una gabbia che non avevo notato. Poi seppi che glielo aveva affidato Angelo Rizzoli prima di andare in prigione, nel febbraio 1983. Con Berlusconi e Lina Sotis, Montanelli fu l'unico a ricordarsi di Rizzoli rinchiuso in galera. Me l'ha raccontato lo stesso ex editore del Corriere. Che dovette pure regalare un televisore al direttore del carcere di Bergamo per poter ricevere in isolamento la visita del giornalista. Te l'ho detto: Indro era un gran signore. «Era il Papa del giornalismo, il più bravo di tutti», hai commentato alla sua morte. Ma lui che cosa pensava di te? Ah be', questo non lo so. Rammento però che in un'intervista dichiarò che, leggendo i miei pezzi, vi trovava qualcosa di familiare. Quando ti definiscono l'erede di Montanelli, nel tuo intimo quale reazione hai? Non provo soddisfazione, perché non è così. Lui aveva qualità che io non ho. Dire che mi dispiaccia sarebbe ipocrita. Ma dentro di me so che non è vero. Nel 1995, dopo che lo avevi sostituito alla direzione del quotidiano da lui fondato, Montanelli ebbe a dire di te: «Il suo Giornale confesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Comunque, non è la formula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!» È esattamente quello che fece Montanelli per tutta la vita, tant'è che riuscì persino a diventare un'icona della sinistra. Io mi sono limitato a adottare la sua formula giornalistica. Ma l'ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Walter Veltroni: «Sì ma anche». Non si schierava nettamente, il suo editoriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo. Lo cercasti dopo che Berlusconi ti aveva offerto la sua poltrona? Mi cercò lui. Ma senti. Andò così. Il primo giorno, 15 gennaio 1994, arrivai qui, in quello che era stato il suo ufficetto, e non trovai nulla, neppure la macchina per scrivere. I fattorini me ne recuperarono una di plastica in cantina, di colore rosso, scassatissima, e con quella mi misi a buttar giù il mio fondo di saluto ai lettori, che di solito i neodirettori si portano in tasca perché l'hanno già vergato con largo anticipo a casa. Il giorno dopo arrivai in redazione e mi riferirono che mi aveva cercato Montanelli. Lo feci richiamare al telefono. Lui mi diede il benvenuto e si complimentò per l'editoriale: «Mi è molto piaciuto. Mi spiace soltanto di non averlo scritto io». Ma dopo due mesi cominciò la guerra con La Voce. Davano per scontato che ci avrebbero ammazzato. Non Montanelli, che non era il tipo: i suoi colonnelli. Dicevano che i migliori se n'erano andati nel nuovo giornale. Noi eravamo considerati dei paria che avrebbero fatto una brutta fine. I primi numeri della Voce vendettero uno sfracello. Io ero piuttosto terrorizzato, nonostante col mio solo arrivo Il Giornale fosse salito di botto a 150.000 copie, contro le 115.000 dell'ultimo giorno con Montanelli direttore. Però dentro di me intuivo che l'entourage di Indro puntava a fare un quotidiano con una linea un po' lib-lab, assolutamente diversa da quella che aveva tenuto qui, anzi più lab che lib, di sinistra, cavalcando un antiberlusconismo spinto. Questo fece sì che La Voce diventasse la fotocopia della Repubblica e del Corriere. Noi invece esasperammo non tanto il montanellismo, ché senza Montanelli è impossibile far sfoggio di montanellismo, quanto una linea che potesse soddisfare appieno quel pubblico borghese al quale egli s'era sempre rivolto nel corso della sua carriera. E infatti i lettori di Montanelli tornarono in massa al Giornale, tant'è che raddoppiammo le vendite. Ma i lettori di Montanelli erano pochi, 115.000, l'hai detto tu. Allora come si spiega il raddoppio? Se fai la somma delle copie che Il Giornale e Libero vendono in edicola, arrivi a 190.000. Non è una somma aritmetica, perché tiene conto delle doppie letture, cioè di coloro che comprano entrambi i quotidiani. Insomma, il bacino fisiologico del centrodestra, all'edicola, è intorno alle 200.000 copie, non c'è niente da fare, oltre non vai. Il Giornale superò le 250.000 quando non c'era la crisi. Ma le copie che raggranellai con Libero furono in gran parte ciulate al Giornale, prova ne sia che Libero nel 2008 arrivò a superare le vendite del Giornale in edicola, senza panini. Il nostro parco lettori è questo. Se tu non tieni una certa linea, loro non ti comprano. Invece Montanelli con La Voce rinunciò ai suoi vecchi lettori, ce li lasciò tutti qui. Quindi non è vero che La Voce chiuse per mancanza di ossigeno, perché i finanziatori si defilarono e non ci misero i soldi che avevano promesso. A me Luciano Benetton nel giugno 1995 confessò d'averci investito a fondo perduto circa 2 miliardi di lire. Infatti La Voce chiuse perché vendeva appena 30-40.000 copie. Eppure cinque anni dopo, mentre stavo per aprire Libero, incontrai per caso Montanelli in un ristorante di Milano che si chiama Al Porto. Prima di andarsene, venne al mio tavolo: «Ho saputo che fondi un giornale tuo e ti dico che ce la farai, perché tu, a differenza di me, sai far di conto». Era ancora persuaso che l'insuccesso della Voce fosse stato determinato da questioni contabili, da un buco di bilancio, anziché da una scelta di campo sbagliata, disastrosa, che aveva contraddetto la linea politica tenuta per una vita. Mi raccomandò anche di rimanere sempre magro». Consiglio che hai seguito scrupolosamente. Aggiunse: «Tu fai parte del club dei magri e devi restarci, perché porta buono». Penso si riferisse alla salute. Lo penso anch'io. Però subito dopo mi chiese una sigaretta, strappò via il filtro, se la accese e cominciò ad aspirare il fumo con voluttà.