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Quando padre e figlio si giocano il futuro

Piero Buscaroli

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Negli ultimi anni, grandi romanzi hanno affrontato la questione del rapporto tra padre e figlio. Valga per tutti lo splendido e durissimo "La strada" di Cormac Mc Carthy. Un grande scrittore si riconosce quando la materia del racconto e la scrittura divengono una cosa sola, l'impasto riconoscibile con quella paroletta quasi rettile nella sua sguscianza: lo stile. Preferisco dire: la voce. Nel libro di Piero Buscaroli «Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del mio Novecento», edito da Mondadori, tutto nasce nel nodo splendido del rapporto tra lui ragazzino e il padre. O meglio dal luttuoso taglio di quel nodo. Non è un romanzo -l'autore se ne guarda bene- ma è un libro scritto con una voce che conquista e trascina il lettore. Il latinista imolese Corso Buscaroli fu condannato da una corte di partigiani per "concorso morale in omicidio", e logorato nelle prigioni dei "vincitori", morì nel '49. Non vide l'assoluzione piena che venne, solo nel '60, a ristabilire una verità giudiziaria. Ma al figlio Piero, massimo studioso di musica, autore d'opere capitali su Bach, Beethoven e Mozart, non basta la verità giudiziaria: vuole sapere cosa resta dell'esser stato da allora dalla parte dei vinti, in un destino di difficoltà e ostracismi, di malumori e menzogne della storiografia dominante. Ed è folgorante la sponda su cui arriva il gran mare di ricordi e di rivelazioni (sì, il libro è esplosivo): "Nella solitudine, spoglia di qualsiasi speranza, di chi scrive qui, la delusione non contiene l'abiura, è il solo tratto originale che rivendico". La delusione intorno a Mussolini, alla guerra, all'Italia, a tanti bambocci che pensavano di farla grande e la condussero alla grottesca e tragica sua vicenda politica fino a qui recitata, in un crescendo di immoralità; ecco questa generale, orrida delusione non coincide, per Buscaroli, con l'abiura degli ideali che il tredicenne innamorato di suo padre sentì sorgere insieme alla passione per la "lingua" del genio in Beethoven e Bach. La domanda che rintocca fin dalle prime pagine lo accompagna e ossessiona fino alla fine: come fu che "uno studioso di cinquant'anni, ben ferrato in Virgilio e Orazio e un suo figlio di tredici, a tutto impreparato se non agli entusiasti e disordinati ardimenti, potessero insieme precipitare e giocare l'uno il suo intero passato, l'altro il suo intero e sconosciuto avvenire". L'autore si considera "superstite della RSI in territorio nemico". E l'Italia per lui è una "ex nazione". Convocando nelle sue pagine figure di ieri e di oggi, da Salazar a Zaccagnini, da Grandi ai Marescialli tedeschi, e Prezzolini e naturalmente il suo Longanesi, e con gustose stilettate a maestri d'oggi come Magris e Mauro, qui Buscaroli offre una lettura non convenzionale della storia tra i suoi diari e la pubblica cronaca. C'è chi deve tremare, chi vergognarsi, chi fermarsi a pensare. La vita è movimento di trasformazione. Dall'amore per il padre possono venire molti guai e delusioni, ma mai venire l'abiura all'ideale che ebbe. È un libro d'amore, questo libro violento. Perciò chi come me ama dirsi italiano, senza retorica o coloritura politica, ma solo per l'amore di Dante, Petrarca, Michelangelo, Leopardi e Ungaretti, da questo impietoso ritratto che nasce dalla pietà per il padre, sente venire, ancora più estrema, l'eterna aspirazione all'Italia.

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