Fine del sogno
diMARCO RESPINTI Washington, D.C. La multietnicità è un conto, anzi un fatto. Ineludibile. Ma il multiculturalismo è tutt'altra cosa: anzitutto, una catastrofe. L'altro giorno, qui a Washington, la centrale del potere politico americano, con un esperto da novanta di America Latina (nome off-records) si ragionava di cosa rende possibile la pubblicazione, lunedì, su The Wall Street Journal, di due articoli due - ha del sorprendente - a proposito dello sfascio del castello di carte multiculturalista. Un'anonima e asciutta riflessione sull'inutilità dei tentativi sin qui profusi per screditare Geert Wilders, il leader del Partito della Libertà terzo a giugno nelle elezioni dei Paesi Bassi, e un ragionamento di Josef Joffe - editore-direttore del settimanale Die Zeit e Fellow alla Hoover Institution on War, Revolution and Peace dell'università californaiana di Stanford - sul clima da "Tea Party" che si respira in Germania. Cosa li accomuna? Lo scontento popolare rispetto all'immigrazione islamica. Wilders dice apertamente ciò che un numero enorme di neerlandesi pensa da parecchio tempo ma senza il coraggio, o l'opportunità, di alzare la voce. Joffe registra il successo del nuovo libro di Thilo Sarrazin, Deutschland schafft sich ab ("La Germania che liquida se stessa"), economista, socialdemocratico, ex membro del consiglio direttivo della Deutsche Bundesbank cacciato dai colleghi per "scorrettezza politica", inaspettatamente appoggiato di sponda dal cancelliere Angela Merkel (che fino a ieri lo demonizzava) la quale nientepopodimeno giudica ora il multicultualismo "fallito, totalmente fallito". Si può non concordare con Wilders o Sarrazin, ma non è che bollandoli di fanatismo razzista il problema da loro evocato (e il grande supporto popolare di cui godono) svanisca come neve al sole. In Europa Occidentale, il flusso di masse culturalmente diverse è cosa seria. Senza criteri precisi d'integrazione, spessissimo caparbiamente (e orgoliosamente) renitenti a qualsiasi inserimento, i nuovi venuti - sì, musulmani: è una questione culturale, non etnica - generano immediatamente strutture sociali ed economiche parallele, per non parlare di quelle educative, le quali portano alla crescita fulminea di un proletariato, e talora di un sottoproletariato, ineducato, illetterato e pure privo di skill professionali, epperò assertivo e arrogante, coccolato strumentalmente dai politici "immigrazionisti" sia di certa Destra sia di certa Sinistra sinistra (come stigmatizza il giornalista statunitense Christopher Caldwell in L'ultima rivoluzione dell'Europa. L'immigrazione, l'islam e l'Occidente, trad. it., Garzanti, Milano 2009) e mantenuto dall'assistenzialismo già in bancarotta che pesa con un macigno sulle tasche dei contribuenti vuoi neerlandesi vuoi tedeschi. Ecco allora imporsi la saggezza del succitato esperto statunitense di America Latina (dunque sia di multietnicità sia multicultualismo). C'è meno distanza - per fare un esempio comprensibile - tra un francese dell'Esagono e un Pied-Noir d'Algeria che tra un arabo cristiano e uno musulmano. Il famoso scontro fra le civiltà non è una guerra tra pelli diverse, ma l'inconciliabilità fra visioni del mondo. Le etnie umane s'incrociano di continuo e salutariamente, ma il meticciato culturale raggiunge prestissimo la frontiera, subito invalicabile se di mezzo c'è, come sempre c'è, la religione, la più radicale e radicata delle visioni del mondo la quale, integrale, annacquata o secolarizzata che sia, determina sempre gli aspetti sociali, politici ed economici delle società. Il Wall Street Journal, che ama il laissez-faire, teme il modello banlieue. Uccide il business perché distrugge le società libere capaci di scambi responsabili: le società fatte di uomini culturalmente somigliantisi (nel rule of law, per esempio) e, benedetto il Cielo, di pelli diverse l'una dell'altra.