Palazzo Chigi, quello «foriporta»
diLIDIA LOMBARDI Non se la prendano a male il premier Berlusconi e il Sottosegretario Gianni Letta. C'è un Palazzo Chigi più blasonato di quello dove ogni giorno entrambi s'affannano, con la corte dei signori ministri, a tenere le sorti del governo. Il palazzo che qui si presenta è «foriporta», nel cuore dei Castelli, in quella Ariccia «gran fiera magnara», come avrebbe detto Gadda. Una città sospesa oltre un ponte così alto da essere un tempo prediletto dai suicidi. Sbrodolata di vino alle fraschette, unta di porchetta affettata calda, con la crosticina che fa venire il languor di stomaco anche alla signorina più schizzinosa. Beh, in questa Ariccia dei buongustai la famiglia di principi più esclusiva tirò su la propria dimora, la residenza principale, quella abitata assai meglio e a lungo dell'edificio romano in faccia alla Colonna Antonina. Un'esagerazione? No. Perché fu un papa in persona, Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi, a commissionare al più raffinato architetto del barocco capitolino, Gian Lorenzo Bernini, la ristrutturazione dell'edificio cinquecentesco dei Savelli. E ai blasonati papalini non bastò solo il palazzo. Bernini modellò un nucleo urbanistico con la piazza di Corte. Da una parte dunque la facciata del palazzo. Di fronte la chiesa con la bella cupola, il pronao e i due piccoli edifici laterali, che fanno da quinte allo slargo. E che come una tenda che si chiude proseguono ellittici nelle due viuzze laterali. Un'idea scenografica che ritroviamo per esempio nel colonnato di piazza San Pietro. Ma non bastava. Dietro la villa - perché i Chigi vollero ad Ariccia la Corte, il Palazzo e il buen retiro di villeggiatura - si stende il parco, cosparso di reperti archeologici perché era qui l'antico nemus aricinum consacrato a Diana, la dea della caccia. Cinguettii di uccelli, dunque, nei ventotto ettari di alberi tipici dei Castelli: le querce, gli aceri, i lecci, i carpini. Ma anche con le specie esotiche importate nell'Ottocento, come la sequoia. Insomma, un monumento, il Palazzo Chigi di Ariccia, capace di ispirare D'Annunzio, di calamitare gli artisti stregati dal Grand Tour, quelli che si perdevano nei paesaggi romani e li trasferivano nelle loro tele. Ecco Corot e Turner, Hackert e Ivanov. Per non parlare di Stendhal, che a ragione qui poteva esser preso dalla fatale omonima «sindrome»! Dentro, dal cucinone di antica maiolica e ghisa alla sala da pranzo estiva con il trompe l'oeil floreale, a quella del biliardo (anzi del «trucco», una specie di bowling in voga nel Seicento) alle sale da letto (verde, rosa, rossa), il palazzo è meglio di un set. E difatti Luchino Visconti ci girò nel 1962 tutti gli interni de «Il Gattopardo», compreso il gran ballo che sigla il fidanzamento di Tancredi e Angelica. Nel 1988 il principe Agostino Chigi Albani della Rovere cedette il Palazzo al Comune di Ariccia con particolari condizioni di favore. Saggia decisione, ché mantenere cotanta magione in tempi moderni, quando il blasone perde ricchezza, lo avrebbe portato alla rovina. Palazzo Chigi restaurato, ricco di donazioni di dipinti barocchi, è aperto al pubblico come un museo. Dovrebbe essere più frequentato e invece troppi tirano dritto e s'infilano subito nelle «fraschette», i ristorantini alla buona. Un bel passare il tempo, ma non l'unico. A Palazzo Chigi invece l'Accademia degli Sfaccendati propone a domeniche alterne una serie di concerti e da oggi al 30 novembre c'è la mostra «Bellezza e Lusso», che tira fuori dagli armadi il guardaroba Chigi.