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Eccoci di fronte all'ennesima lezioncina dell'intellettuale impegnato.

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Sullacattedra questa volta sale Gianrico Carofiglio, già magistrato, poi giallista di successo con la serie dell'avvocato Guerrieri, poi senatore del Pd, poi conferenziere a gogò, negli svariati festival che attraversano il Belpaese per smerciare alla ggente cultura (di sinistra). E adesso filosofo e linguista, ovviamente a tesi. Infatti nel libriccino messo su senza tanto sforzo perché riunisce due suoi interventi (al Salone del Libro di Torino 2009 e al Festival del Diritto di Piacenza 2008) discetta su «La manomissione delle parole». Ovvero sulle «lingue del potere e della sopraffazione». E chi è il più grande manipolatore del lessico politico, colui che svuota insieme parole e realtà? Elementare, Watson. È Silvio Berlusconi, campione di un linguaggio «profondamente irrazionale, volto programmaticamente a oscurare neutralizzando le differenze, ad aizzare le parti ad esempio con la metafora della guerra», scrive il Nostro che spiattella uno studio trovato tra le mani e proprio ad hoc. È vero che Carofiglio nuota nel mare magnum del sapere giravoltando da Virgilio a Shakespeare, da Aristotele alla Arendt, da Dante a Joyce. E però il metodo è quello tipico dell'intellighentia della sua parte politica: da una parte i buoni, i colti, i sinceri, dall'altra i cattivi, gli ignoranti, i falsi. Bianco o nero, vietati i chiaroscuri. Procede così la disamina della distanza delle parole dalla realtà che vieppiù si impone nell'era berlusconiana. E però di certe oscurità ideologiche, di certe contraddizioni in termini che punteggiano la Storia il duro e puro Carofiglio non tiene conto. Come spiegherebbe uno dei cardini dell'Urss, quel «centralismo democratico» con il quale Stalin & C. illudevano le masse di manovrare il proprio destino? E quando il senatore-giallista sostiene che libertà e liberismo non sono sinonimi, perché non dice che non sono sinonimi anche divisione comune della ricchezza e comunismo? C'è un'altra parola che il rozzo Cavaliere usa a sproposito, s'indigna Carofiglio: amore. E lo fa «in bilico fra i toni del romanzo d'appendice e quelli dei talk show spazzatura». Ci permettiamo di obiettare: e allora l'abuso del «ma anche» veltroniano? Non era il tono conciliatorio di Uolter, il «volemose bene» dell'ex sindaco uno stucchevole modo di stare fuori della realtà, se non di cambiarla? Perle, come quelle raccolte nello «Stupidario della sinistra» (1992, Mondadori) da Fausto Gianfranceschi. Una per tutte: Giorgio Bocca nel 1975 riteneva le Brigate Rosse «favola per bambini scemi». Si dirà: Carofiglio è un politico, fa la sua parte anche quando si atteggia a pensatore. Vabbè, concediamogli che nel suo Olimpo metta Gramsci, Calvino, Bobbio, Saramago, Zagrebelsky. Però è troppo ammuffita la sua equazione tra ignoranza e centrodestra. Nell'ultimo capitolo tesse l'elogio della Costituzione, esempio di linguaggio giuridico netto, chiaro. Giusto. Ma è tagliato con l'accetta quando vi oppone la riforma proposta dal centrodestra, bocciata dal referendum 2006. Soffermandosi sull'articolo 70, che riscritto introduceva 717 parole al posto delle 9 originarie, chiosa: «La farraginosità, la bruttezza stilistica delle norme sono collegate alla ristrettezza culturale e alla chiusura ideologica». Una domanda: che ne pensa Carofiglio della Finanziaria dell'ultimo governo Prodi, un articolo e 830 commi?

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