Così si riconosce un capolavoro
diLIDIA LOMBARDI Il rigore, la capacità di riconoscere la «calligrafia» dell'artista. Ma anche il buon senso di non allungare all'infinito il catalogo delle sue opere. Si procede così nell'attribuzione di un dipinto. Ma di presunti capolavori (in soffitta, sotto il letto, se non in un rigagnolo come nel caso dei falsi Modigliani) ne spuntano a bizzeffe. Una volta è un Michelangelo a materializzarsi all'improvviso, un'altra un Leonardo. Per non parlare di Caravaggio, la superstar riesumata dal cimitero di Porto Ercole, un pugno di ossa riconosciute come sue all'85 per cento. Come dire sue per niente. Ma quali sono le regole da seguire nell'emettere la sentenza di autenticità? Ce lo spiegano Vittorio Sgarbi e Claudio Strinati. Due profondi conoscitori dell'arte specie dal Medioevo in poi e due appassionati della ricerca, capaci di lunghi confronti davanti a un dipinto di un autore magari sconosciuto ai più, ma importante per ricostruire la storia di un movimento, di una bottega. Vittorio Sgarbi non le manda a dire. «Qualunque dipinto attribuito a un autore conosciuto con il solo nome di battesimo non ha il minimo interesse. Voglio dire che al 99,9 per cento un Michelangelo, un Leonardo, un Raffaello, un Tiziano ritrovati oggi non sono autentici. A questi quattro giganti negli ultimi venti anni si è aggiunto Caravaggio, idolatrato come un divo. Ma al di là della mitologia, del fascino del personaggio, c'è un altro motivo di interesse, quello economico. Scoprire un capolavoro può fruttare cento milioni di euro, come un Van Gogh, come un Picasso. Però qui sta il discrimine: Pablo Picasso o Vincent Van Gogh firmano centinaia di opere. Il catalogo di quei cinque con un solo nome si restringe a decine di dipinti e oltre quelli non è pensabile che ce ne siano altri, che sarebbero ben venuti fuori. Ecco dunque che cosa muove i titoloni, la curiosità: il ritorno economico». Giorni fa è montato il caso del Michelangelo «trovato» a Buffalo, in Usa. «Ecco un caso tipico. Se il quadro scovato dietro la spalliera di un letto è di Marcello Venusti, devoto copista del Buonarroti, vale 40 mila euro. Se fosse un Michelangelo, di euro ne varrebbe 40 milioni. Allora comprendo lo scopritore, il buon Forcellino, che si è esaltatato tanto da farsi venire la sindrome di Michelangelo. Ma è un problema suo. Come quello di chi trova in cantina un Leonardo, che invece è un lavoro dell'Ottocento anche se tutti quelli che mi hanno intervistato hanno girato il mio giudizio per farmi dire che sì, forse un Leonardo poteva essere. Guardi, mi spingo oltre: un disegno, magari piccolo, di Tiziano, si potrebbe pure rinvenire. Ma un Michelangelo, un Leonardo proprio no». Spiega Claudio Strinati: «Ogni artista ha la sua scrittura. L'esperto è come un perito calligrafico, sa riconoscere la grafia e dare così una paternità all'opera. Prima, ovviamente, ha valutato gli eventuali documenti che accompagnano la storia del dipinto, ne analizza il supporto, la tela o la carta usata, i colori. L'attribuzione è frutto di metodo scientifico. Guai parlare di colpo d'occhio. Le testimonianze sono un altro elemento di indagine. Dalle antiche carte si può dedurre il numero dei dipinti di questo o quell'autore. Basterà sottrarre da quel numero le opere conosciute e si potrà immaginare quante ne restano da scoprire». Ma perché Sgarbi parla di sindrome? «Scovare un "capolavoro" - dice il vulcanico critico - è operazione che dà lustro a chi emette la sentenza. A me invece intriga ritrovare, come ho fatto, un Benedetto Zalone, un Gaspare Landi, un Antonio di Crevalcore. Non interessano a nessuno se non alla ristretta cerchia degli esperti. L'amore per un artista minore è amore per una microstoria che ha pure la sua utilità. Invece i parvenu vogliono prendere luce da un dipinto. Di autentico c'è solo il loro entusiasmo. Io voglio risplendere di luce mia. Anzi, dico di più: amo solo i minori perché non vorrei che la scoperta sensazionale mi facesse ombra. Sa che faccio se individuo un Michelangelo? Nego che sia autentico».