«Zio Boonmee» e i fantasmi di Weerasethakul
Conun regista, Apichatpong Weerasethakul, molto apprezzato in Francia, tant'è vero che il festival di Cannes gli ha premiato ben due film, il secondo, proprio quest'anno, addirittura con la Palma d'oro. Si comincia in modo semplice. Lo "zio Boonmee" del titolo, gravemente malato ai reni, si ritira in campagna in attesa della morte. Ecco però che gli si presentano quasi subito due fantasmi, quella della moglie, perduta anni prima, e quello del figlio che, avendo avuto rapporti prima di morire con una scimmia femmina, adesso è tutto peli, come un vero scimmione. Non basta perché, come succede ai morenti ma qui secondo il credo buddista, lo "zio Boonmee", non ricorda solo il suo passato ma quello, come dice ancora una volta il titolo, delle sue "vite precedenti", in cui era stato un altro uomo, una donna e perfino un pesce-gatto. Si accolga o meno una trama del genere, non può negarsi che il regista l'abbia risolta in modo piuttosto speciale, soprattutto dal punto di vista delle immagini. Sempre studiate con cura, preziose, attente alle raffigurazioni pittoriche, via via mutate a seconda delle cornici in cui le varie "vite" si evocano: nitidi interni, ben delineati, esterni suggestivi in cui le campagne e molte acque accolgono segni di effetto quasi poetico, intente a non far intenzionalmente mai distinguere il presente, il passato e anche il futuro cui si rifanno. Potranno discutersi i ritmi perché, alla maniera di un certo cinema asiatico, soprattutto indiano, privilegiano a tal segno la lentezza da accettare in molti momenti l'immobilità. Ma quello è lo stile del film e pur non inducendo tutti a condividere quella Palma d'oro assegnata da una giuria presieduta da Tim Burton, notoriamente incline al fantastico, si finisce per aderirvi. Convinti anche dalla sua variopinta simbologia. Gli interpreti partecipano ovviamente di questo stile, proponendosi soprattutto come facce.