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Le viti da sogno sulle colline laziali

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diGIUSEPPE SANZOTTA Non c'è regione in Italia dove non si produca vino. Eppure per decenni il marchio di qualità era limitato ad alcune zone. Per i rossi erano i piemontesi con il Barolo a farla da padroni, poi veniva la Toscana con il suo Chianti. I bianchi di valore sembravano limitati al triveneto. Poi nulla. Il Sud era il grande serbatoio, un vino gregario, serviva ad arricchire gli altri, ma nulla più. E il vino contadino era quello delle osterie, senza gloria. Buono solo per le sbronze. Le cose oggi sono ben diverse. Quasi ovunque si producono vini di grande qualità. Soprattutto al Sud sono stati i giovani a innovare, a saper valorizzare una produzione eccellente all'origine, ma che aveva bisogno di essere esaltata attraverso il lavoro in cantina. Abruzzo, Campania, Sicilia, Puglia e Sardegna non sono più zone di produzione di materia prima. Ma hanno etichette di grande prestigio. E naturalmente è cambiato anche il modo di bere. Con la ricerca della qualità rispetto alla quantità. Eppure, soprattutto nel Lazio molta strada deve essere ancora fatta. Quanti marchi della regione sono presenti nella carte dei vini dei ristoranti romani? Pochi, a volte nessuno. Eppure il Lazio anche in questo campo ha qualcosa da dire. Ha elementi di eccellenza assoluti. Prendiamo il Cesanese. Ha sempre avuto una diffusione locale, si produce nelle zone a ridosso del monte Scalambra al confine tra la Ciociaria e la provincia di Roma. Tanti piccoli produttori che in molti casi, al Piglio, come a Olevano o ad Anagni hanno produzioni limitate ma di gran pregio. Tutti troppo piccoli per aggredire il mercato, compreso quello romano. E come non parlare del Frascati. Un bianco ingiustamente bistrattato. Certamente c'è una ragione storica. La vicinanza con la grande città ha giocato un ruolo negativo. Un mercato facile a portata di mano ha spinto a puntare sulla quantità. Ci sono voluti anni per cambiarne l'immagine. Oggi ci sono aziende che raggiungono livelli altissimi, ma ancora la diffidenza sul vino di casa, su quello da osteria non è completamente superata. Così in un ristorante della Capitale sarà più facile vedersi proporre una Falanghina di incerta provenienza che un Frascati di pregio. Provincialismo culturale? Certamente. Ben vengano nuovi luoghi dove si possano degustare i prodotti della nostra tradizione, ben venga la valorizzazione della qualità. Una vera operazione culturale. Ma agli operatori rivolgiamo un invito a conoscere e a far conoscere anche la produzione laziale. Recuperando lo svantaggio rispetto alle altre regioni che sanno difendere i propri prodotti. È ora di farlo anche a Roma e nel Lazio.

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