Quella costituzione incompiuta
Ha fatto bene o male Berlusconi a citare, nel suo discorso di ieri, quel passo in cui Piero Calamandrei sostenne che le minoranze, nei regimi parlamentari, devono riconoscere e rispettare il principio della “legittimità costituzionale” delle maggioranze e dei loro governi? A pensare che abbia fatto male è naturalmente il sospetto che per sostenere quella abbagliante evidenza non c’era forse nessun bisogno di richiamarsi alle idee di un giurista che fu essenzialmente un ardente apologista di quell’ircocervo ideologico che è la nostra Costituzione. Non è infatti inopportuno ricordare che la fama e il prestigio di Calamandrei sono fondati quasi esclusivamente sulla passione con cui, negli ultimi anni della sua vita, esattamente fra il 1946 e il 1956, non cessò mai di esprimere la sua incondizionata ammirazione per un testo in cui lui stesso riconobbe un pasticcio nato dall'incontro del marxismo togliattiano col solidarismo cattolico. Conviene anche osservare che quando gli accadeva di spiegare ai giovani, come faceva spesso, l'origine storica di quella Carta, li esortava abitualmente ad andare col pensiero all'epos della resistenza antifascista: un motivo, questo, che egli intonava sempre con accenti di sobria passione, ma senza mai spiegare né che quell'epos si confuse spesso con le infamie di un'atroce guerra civile, né che esso non sarebbe potuto nemmeno sbocciare se a liberare il nostro paese e l'Europa dal nazifascismo non avesse provveduto un evento un po' più decisivo della nostra resistenza: la micidiale batosta che le armate angloamericane vibrarono all'Italietta fascista e alla Germania nazista. Perché tanta reticenza su quel colossale dettaglio storico, militare e politico? La parola agli esperti del ramo Psicologia dei Vinti. Che cosa occorre comunque dedurre dal fatto che in questa umilissima nota sulla natura del magistero costituzionale di Calamandrei è spuntato fuori a un certo il motivo del suo silenzio (perfettamente conforme, del resto, a quello di tante insigni figure dell'antifascismo nazionale) sulle vere cause della nostra “liberazione”? Per rispondere basta chiedersi come sarebbe la Costituzione senza la Resistenza… Tanto per cominciare, non si aprirebbe con quell'articolo smaccatamente ideologico che definisce il nostro paese una repubblica “fondata sul lavoro”, così confessando apertamente di non volersi affatto limitare, come tutte le costituzioni di stampo liberale e democratico, a definire i diritti e i doveri dei cittadini, ma di voler abbozzare un programma di riforma della società. Non ci sarebbe, inoltre, l'articolo 42: quello che afferma che la proprietà privata “è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Dove in una sola frase sono saldamente incollate una minaccia reale a una promessa illusoria. La minaccia reale (e in larga misura adempiuta) è il programma statalista implicito nell'affermazione che la proprietà privata è una funzione sociale che può essere legittimata soltanto dallo Stato (dunque non è un diritto che preesiste al suo benestare e a tutte le condizione e gli scopi che le vorrà imporre). La promessa immaginaria (nonché demagogica) è quella con cui lo Stato (attribuendosi un potere immenso) si impegna a fare (non si capisce né come né quando) di ogni cittadino un proprietario. Non avremmo, infine, una Repubblica parlamentare e partitocratica, scaturita dall'evidente intenzione, comune alle dirigenze di tutti i nostri vecchi partiti, di neutralizzare le scelte dell'elettorato, giudicato sempre immaturo, frapponendo fra gli elettori e gli eletti l'ammortizzatore di quei compromessi di palazzo che praticamente impediscono ai governi di governare attuando i loro programmi. Saremmo, cioè, già da mezzo secolo e rotti, come è ormai nei voti della maggioranza degli italiani, una repubblica presidenziale basata sul principio dell'elezione diretta del Capo dello stato e del governo senza la mediazione paralizzante del Parlamento. Quanto alla ragione per cui occorre pensare che anche stavolta il Cavaliere, nonostante tutto, ha fatto bene, anzi arcibene, è quell'impasto di stupore e stizza che la sua inattesa citazione delle parole di un nume della sinistra, da lei sventolato da ormai più di mezzo secolo, ha stampato ieri sulle facce dei suoi più boriosi avversari. Nulla evidentemente li fa incazzare come il sospetto che lui sia persino capace, all'occorrenza, di raccogliere dalla polvere qualche loro vecchia bandiera. E ciò basta a farmi pregustare il momento in cui Silvio, magari al solo scopo di far schiattare Scalfari, citerà un passo di Diderot.