"La letteratura è il senso della vita"
Eraldo Affinati è uno dei nostri scrittori più importanti (autore di «Campo del sangue», «Berlin», «La città dei ragazzi», per citare alcuni titoli). Lavora come docente alla Città dei Ragazzi, la preziosa struttura alle porte di Roma che accoglie orfani provenienti da tutto il mondo, ed è fondatore con la moglie Luce Lenzi della scuola di italiano per stranieri «Penny Wirton». La fusione del suo impegno sociale e culturale ne fanno uno degli intellettuali italiani più sensibili e raffinati. Esce oggi per Mondadori il suo ultimo lavoro, «Peregrin d'amore», una sorta di antologia geografica della grande letteratura italiana. Gli chiediamo di presentarlo ai nostri lettori. «È un viaggio, in quaranta capitoli, nei luoghi della letteratura italiana, dentro e fuori il territorio nazionale, dall'Umbria di San Francesco alla Roma di Pier Paolo Pasolini. Sono stato nella Londra di Foscolo, nella Napoli di Leopardi, nella Venezia di Goldoni, nella Sicilia di Verga e Pirandello. Ho visto Gerusalemme con gli occhi di Tasso, che non ci andò mai. Ho rifatto il percorso della cavallina storna di Pascoli. Racconto il nostro Paese rievocando, nell'Italia di oggi, le pagine dei classici, antichi e moderni». Nei suoi libri l'idea del viaggio è sempre presente, cosa le trasmettono i luoghi? «Sono spazi magnetici nei quali sento lo scorrere del tempo. Nei boschi della Brianza mi sono messo nei panni di Renzo quando, nei Promessi sposi, fugge da Milano. A Lampedusa, dove finisce l'Orlando Furioso, ho immaginato che il paladino Orlando, un tempo fiero avversario dei Mori, accogliesse a tavola i nemici di un tempo servendo loro il minestrone. Sul fiume Don, in Russia, ho rivissuto l'epopea dei nostri alpini, durante la seconda Guerra Mondiale, sulle tracce di Mario Rigoni Stern». Ma non è sufficiente l'opera per conoscere uno scrittore? «Certo. Ma oggi la rivoluzione informatica sembra sottrarci la vera esperienza. Ed io, nella mia opera, voglio far sentire il peso di questa mancanza. Naturalmente la stazione finale dei miei viaggi è una sola: la scrittura. È lì che capisco, oppure no, ciò che ho fatto». Quale autore o quale luogo l'ha colpita di più? «Non posso ricordarne soltanto uno. In certe strade di Firenze, dietro al mercato di San Lorenzo, mi è sembrato di riconoscere Pinocchio. Nella Calabria interna, a Stignano, ho creduto di parlare col fantasma di Tommaso Campanella. A Torino, davanti allo stabile dove si suicidò Primo Levi, ho avuto l'impressione che il palazzo stesse per crollare da un momento all'altro. Nella trincea di Giuseppe Ungaretti uno strano silenzio è calato dentro di me. Ma forse l'esperienza più emozionante è stata quando ho dato voce a mio padre, scomparso da anni, nella sezione dedicata a Giuseppe Gioachino Belli». Quella ambientata a Roma, la sua città? «Sì, sotto la statua dello scrittore, a Trastevere. È un brano composto in dialetto romanesco, come altre parti del libro, nei capitoli su Gadda, in via Merulana, oppure "Accattone" di Pasolini, a Testaccio». Le sue intense esperienze umane come si confrontano con la letteratura? «La letteratura dovrebbe servire a dare un senso alla vita. Ma questo s'impara con gli anni, non è una cosa naturale. Lo dico da insegnante. Ecco perché continuo a stare fra i banchi». Qual è il luogo d'elezione di Affinati scrittore? «Proprio la classe scolastica. È lì che sento, pur fra tante innegabili difficoltà, una verità quotidiana di cui non posso fare a meno».