E Pirani, l'ex comunista racconta il secolo breve
L'Italia laica e illuminata, che ovviamente occhieggia a sinistra. Ma anche la disillusione del comunismo, la scoperta che l'Urss non è affatto il migliore dei mondi possibili. Ecco un altro uomo di sinistra, anche se non più comunista, un protagonista dell'Italia del Novecento, che dice la sua. È Mario Pirani, tra le firme di la Repubblica. Il libro, «Poteva andare peggio» glielo ha appena pubblicato Mondadori, l'editore «mostro» dal quale Vito Mancuso è scappato non sopportando più, lui progressista e illuminato, di ricevere i diritti d'autore dalla famiglia Berlusconi. Così come ha spiattellato alcune settimane fa appunto sulla prima pagina di la Repubblica. Ma tant'è. Pirani per ora resta con la casa di Segrate. E racconta il «Secolo breve». A cominciare dalle leggi razziali. Perché Pirani, classe 1925, in «Poteva andare peggio» fa il romanzo di una generazione fitto di nomi, luoghi, persone, aneddoti. «In quegli anni, insomma, segnati dalla guerra e dalla percezione di quanto ingannevole fosse la retorica del fascismo, l'influsso di insegnanti chiaroveggenti e preparati per chi ebbe la fortuna, non rara, di incontrarli, si rivelò - scrive Pirani - decisiva. Vuoi che riflettessero nell'insegnamento ascendenze liberali, cattoliche o, persino, socialiste, essi sapevano trasformare le conoscenze umanistiche e quelle storico-filosofiche in un messaggio formativo di cui percepivamo l'immediatezza e la modernità». In quanto ebreo - e un capitolo a parte meriterebbe la storia «sociale ed intellettuale» della sua famiglia, i Pirani Coen - l'autore ha provato sulla sua pelle la discriminazione e la persecuzione razziale: per lui la Liberazione è stata doppia. Per questo - ma non solo - era difficile restare insensibili al richiamo del Sole Rosso dell'est. L'approdo al Pci e al partito nuovo e di massa ideato e voluto da Palmiro Togliatti fu dunque una conseguenza logica. Lui stesso - all'epoca «un comunista tutto di un pezzo» - rileggendo gli scritti di allora ammette oggi: «eravamo in preda ad una pulsione fideistico-religiosa che paradossalmente scambiavamo per l'acme della razionalità storica. Me ne sarei accorto presto». Quel «presto» è - come per alcuni altri intellettuali «rivoluzionari di professione» della sua generazione - il 1956 con la repressione sovietica dei fatti d'Ungheria. Nel mezzo c'è però tutto il repertorio della militanza comunista di quegli anni: dal viaggio in Urss, patria del socialismo, alle lotte politiche in Italia contro la Dc. L'Ungheria, il XX Congresso del Pcus, le lacerazioni all'interno del partito, tutto è per Pirani ormai «assurdo». E il distacco definitivo arriva nel 1961 quando Pirani esce dall'Unità e dal Pci. Una «cesura netta» con il partito ma anche con la sua «vecchia» vita. Ad attenderlo l'Eni di Enrico Mattei. Pirani diventa una sorta di «agente segreto» nel gioco della diplomazia parallela contro le Sette Sorelle. Ma quell'Italia rampante - dove chi era a destra era un appestato - nascondeva tanto marciume. Anche questo Pirani deve ricordare.