Addio Chabrol, il re francese della psicologia
Durante tutti gli anni Cinquanta quando si parlava di Claude Chabrol si diceva subito, quasi un riflesso condizionato, che aveva inventato la Nouvelle Vague. Scrivendo però di quel suo primo film, "Le Beau Serge" nel '57, interpretato da Gerard Blain e da Jean-Claude Brialy, quella paternità non si era ancora pensato di attribuirgliela. Subito dopo, però, visto "I cugini", ascoltando gli amici con cui aveva fatto gruppo, Truffaut, Godard, Rohmer e il critico teorico Bazin, a quel termine nuovo abbiamo cominciato a ricorrervi contrapponendolo, nel cinema francese, a quell'altro, non sempre elogiativo che, soprattutto a Parigi, era stato a suo tempo definito "Il cinema di papà". Quali erano le differenze? Che prima, sia nella commedia sia nel dramma e con autori comunque di vaglia nel cinema di papà si privilegiavano i racconti tradizionali, con personaggi costruiti per servire alla trama e obbedirvi, adesso al primo posto c'erano le psicologie, disegnate, spesso con forti impennate, e le si collocavano in cornici quasi sempre di provincia chiedendo aiuto spesso per le storie all'amato Simenon, nume tutelare se non di tutti gli autori della Nouvelle Vague, certamente di Chabrol che gli si rivolgeva quasi ad ogni suo film come avrebbe presto imparato a rivolgersi, come interpreti femminili, prima a sua moglie Stéphane Audran e poi rimanendole fedele fino alla fine della sua carriera, a Isabelle Huppert. Una carriera fitta di titoli (in genere, sempre grandi titoli) e di percorsi molteplici, sia quando si riferiva ad Hitchcock, sia quando, rifacendosi a Simenon, affrontava con mano salda il poliziesco: attento, di solito ad analizzare il male, la sua nascita, i suoi progressi, le sue evoluzioni, specialmente all'interno di caratteri femminili di cui poi, con la sua regia, grazie alle grandi attrici cui si rivolgeva, analizzava in profondità ogni sfaccettatura. Un elenco quasi sterminato. Negli anni sessanta "La tigre ama la carne fresca", un James Bond alla parigina con Stephane Audran e, soprattutto "Il tagliagole", sempre con Stephane Audran, in cui riusciva a rifare Hitchcock, ma con autonomia, nella provincia francese più profonda. Nei Settanta-Ottanta alle prese più di una volta con i gialli della famosa "Serie Noir" parigina o con fatti di cronaca nera, approfondendo il suo sodalizio con Isabelle Huppert o continuando a seguire Simenon in film quali " Violette Noziere", o "I fantasmi del cappellaio", che sembrava, quest'ultimo, discendere, ma con altrettante tensioni, da "La finestra sul cortile" di Hitchcock. Mentre più in là "Il grido del gufo", riscrivendo "Il grido della civetta" di Patricia Highsmith, si teneva in equilibrio sicuro fra i "noir" e il teatro della crudeltà. Fra gli Ottanta e i Novanta ecco Chabrol, pur continuando nelle sue radiografie del male, andarlo addirittura a cercare in uno dei Thriller più classici, "Doctor M" di Fritz Lang, ambientandolo nella Berlino contemporanea, arrivando allo strazio, ma con intelligenza, con "L'inferno", rivisitazione atroce della gelosia. Con il Duemila, il male quasi sommerge lo schermo e, ad esprimerlo, sono quasi sempre personaggi femminili: ne "Il fiore del male", questa volta con Nathalie Baye, un film in cui il marcio della borghesia si accompagnava al marcio della politica, come, dopo "La damigella d'onore" nel 2004, ne "La commedia del potere", nel 2006, ancora con Isabelle Huppert che qualche anno prima aveva quasi sublimato l'ambiguità del male in "Grazie per la cioccolata". Il male, dunque quasi come simbolo di una carriera di uno degli autori maggiori del cinema francese della seconda metà del Novecento e oltre. Non però il male come facile espediente per costruirsi un successo ma come una necessità per studiare tutte le influenze e le conseguenze nel cuore umano. Mai da posizioni manichee, comunque privilegiando invece lo studio e l'analisi di uno dei principali moventi degli uomini e della società che li determina.