La letteratura non è solo gioia
«DellaFelicità / niente nessuno sa / salvo che viene e va / torna e se ne rivà / infischiandosi del blablà / che eternamente qua e là / sopra di lei si fa». Con questa filastrocca vorrei offrire un affettuoso contributo alla controversia sul rapporto fra letteratura e felicità recentemente aperta da due articoli apparsi sul «Corriere della sera». Nel primo (del 15 agosto) Alessandro Piperno, lamentando che la letteratura abbia rotto «il suo millenario sodalizio con la felicità», ha mostrato di preferire e augurarsi una letteratura gagliardamente ottimista. Nel secondo (del 28 agosto) Mario Andrea Rigoni ha garbatamente contestato questa idea. Ma quando mai - ha obiettato stupito Rigoni - la grande letteratura, da Omero all'Ecclesiaste, da Shakespeare a Leopardi, da Dostoevskij a Kafka, da Beckett fino a Cioran e Bernhard - ha espresso e rappresentato temi ottimistici e situazioni felici? Non è essa, al contrario, un séguito di orrori e incubi? E lo stesso Vangelo, il "libro dell'amore", non afferma forse che Satana è il Principe di questo mondo? Condivido lo stupore di Rigoni per almeno quattro ragioni. La prima è il fatto arcinoto che gli appelli alla causa della felicità in rebus litterariis, anche quando, pur essendo, come l'articolo di Piperno, legittime e innocue espressioni di gusti e idee personali, e perciò non abbiano il carattere e il potere di un'ingiunzione ope legis, tuttavia non possono non ricordare quel richiamo all'ottimismo obbligatorio che fu e resta il cardine ideologico delle estetiche di specie vagamente poliziesca sventolate da tutti i regimi totalitari, rossi o neri che essi siano. La seconda è che si dà lo stranissimo caso che proprio e soltanto gli autori che osano guardare in faccia il lato atroce dell'esistenza ne sappiano rappresentare e cantare stupendamente anche il lato meraviglioso e ammaliante. Vedi la compresenza di entrambi i registri in tutti i grandi testi della letteratura universale. La terza è che mi sembra quanto meno ingiusto imputare alla letteratura del nostro tempo un divorzio assoluto dalla felicità giacché si dà il caso che essa al contrario conosca non pochi straordinari inni alla vita (vedi, per fare un solo esempio, quelli sparsi in tutta l'opera di Joyce, dall'inebriante epifania della ragazza-uccello in "Dedalus" fino allo strepitoso monologo di Molly Bloom in quell'"Ulyxes" che con tutti i suoi satirici e sarcastici sogghigni altro in effetti non è che una grandiosa apologia della vita, di tutta la vita). L'ultima infine è l'inesplicabile letizia che mi procurano proprio quei luoghi della letteratura universale - dai più terrificanti miti greci alle spesso crudelisime grandi fiabe di tutti i tempi e paesi, dal sublime lamento del "Prometeo incatenato" di Eschilo all'astroce racconto evangelico della passione di Cristo, dai disperati monologhi di Amleto e Macbeth sull'insensatezza della vita agli agghiaccianti apologhi di Kafka e Beckett - che si fanno allegramente beffe di ogni liliale e univoco ottimismo. Letizia che assume - lo confesso - la forma di un muto cachinno interiore tutte le volte che torno a sussurrarmi quel mirabile annuncio della morte dell'universo che è l'ultimo sublime capoverso del "Cantico del gallo silvestre": «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». Perché niente mi sembra più esilarante dell'idea, espressa in queste mirabili righe, che il Tutto si potrebbe inabissare in un nulla eterno molto prima che la nostra ridicola brama di scoprirne il senso sia stata soddisfatta? E perché nessuna prosa mi sembra più ammaliante di quella con cui Leopardi, invitandoci ad assistere all'epilogo, più beffardo che catastrofico, della gran fiaba cosmica, in effetti ce ne esclude, visto che grazie a lui lo possiamo osservare, come semplici spettatori, dal privilegiato balconcino offertoci da quel passo strepitoso? Non lo so e non lo voglio sapere. E sono felice di non saperlo.