Capitalisti non è peccato
L'economiadi mercato è la più efficace per promuovere il benessere, lasciando all'uomo la libertà delle scelte e, pertanto, la responsabilità di un funzionamento coerente dell'economia stessa. Che cos'è e a che cosa serve l'economia di mercato? È utile o pericolosa? L'economia di mercato è lo strumento più utile ed efficace per soddisfare i bisogni dell'uomo. Essa gli permette di crescere lavorando. L'uomo, infatti, per vivere deve lavorare e il risultato del suo lavoro è legato ai suoi talenti, ai suoi sforzi e, perché no, anche alla sua "fortuna". Lavorare è un diritto ma è anche un impegno. Ecco, l'economia di mercato permette all'uomo di svolgere il suo lavoro in modo produttivo e persino di scegliere come farlo, dove farlo, quando farlo. Essa si fonda sulla libera iniziativa privata, nel senso che il privato persegue finalità economiche entrando in competizione con altri privati (capitalismo). Si differenzia dall'economia pubblica, che si fonda invece su programmi formulati dallo Stato per indirizzare la vita economica del Paese. Per queste ragioni l'economia di mercato è, pur con le sue imperfezioni, lo strumento più efficace per utilizzare le risorse disponibili in natura e trasformarle in soddisfazioni dei bisogni dell'uomo: l'economia di mercato stimola infatti l'iniziativa e la creatività dell'uomo a produrre e vendere, e quindi comperare, ciò che gli è utile alle condizioni più opportune e in piena libertà; solo se questo non avviene (perché si producono "forzature") il mercato comincia a funzionare in modo distorto e a influenzare il comportamento dell'uomo anziché servirlo. I principi su cui si fonda l'economia di mercato sono quelli capitalistici. Ma perché l'uomo deve lavorare? Il senso dell'esistenza sta nel lavoro? L'esistenza umana non può prescindere dal lavoro e il lavoro aiuta a dare un senso alla propria vita. Poche cose danno più significato alla vita del lavoro. Si studia per lavorare, si viene educati per lavorare, ci si riposa per lavorare, ci si preoccupa per come lavorare, ci si dispera per non riuscire a lavorare. Si direbbe che nell'uomo ci sia ansia di lavoro; meglio, una specie di comprensibile frenesia. Il lavoro è prioritario nei pensieri dell'uomo, non è solo un servizio utile alla famiglia e alla società, è quasi una forma di ossessiva affermazione di sé, di acquisizione di potere o sicurezza o denaro. Questa ossessione è però giustificata anche dalla massa di costi fissi che l'uomo di questo secolo si è imposto (o si è visto imporre) e da cui non può più prescindere: non si può ridurre il costo per stare al mondo come il mondo richiede. Si devono sopportare costi di affitto o mutuo, auto, scuole, alimentazione, assicurazioni, vacanze indispensabili, estetica, consumi obbligatori secondo il proprio status...Verrebbe da dire che il poter sopportare il costo dell'esistenza sta nel lavoro. Sembra infatti, guardandosi intorno, che il valore del cittadino sia dato dal suo potere e/o sapere partecipare al mantenimento del costo delle strutture della società e dell'umanità intera: appena venuto al mondo, un uomo vale in funzione delle sue spese future e dei suoi conseguenti redditi. C'è persino da meravigliarsi della contraddizione rappresentata dal facile sacrificio di esseri umani, nel seno materno, grazie all'aborto, che elimina preziosi produttori di futuro reddito... Giovanni Paolo II nell'enciclica «Laborem exercens» fa una dichiarazione forte che in qualche modo risponde alla domanda se il senso dell'esistenza stia o no nel lavoro: "Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell'universo visibile e in esso costituito perché dominasse la terra, l'uomo è perciò sin dall'inizio chiamato al lavoro (...). L'uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore (...). L'uomo, lavorando, deve imitare Dio, suo creatore". Dato che il senso dell'esistenza umana risiede nella ricerca della salvezza, è chiaro che questa passa attraverso il lavoro. Chi stabilisce le norme che regolano l'esercizio e l'utilizzo del lavoro dell'uomo: il privato o lo Stato? Le regole di utilizzo del nostro lavoro non le stabilisce un privato o lo Stato, le stabilisce la logica dell'economia. Questa può essere lasciata alla libertà dei cittadini privati, e si chiama economia di mercato, oppure se ne può impossessare un gruppo organizzato di persone che determina regole che non rispondono a leggi di vero mercato. Quest'ultimo modello economico si può ritrovare sia in una situazione di monopolio (che può essere determinata da uno Stato dirigista che gestisce l'economia), sia in una deformazione della concorrenza privata in cui il privato arrivi ad avere, anche lecitamente, una posizione talmente dominante da influenzare la domanda e l'offerta. Questo sistema non rispetta la natura del libero mercato perché sottrae all'uomo la libertà - e l'onere - di impegnarsi individualmente per soddisfare la propria vocazione a operare. E allora perché sono così tanti, invece, ad apprezzare l'economia di Stato e il cosiddetto Stato assistenziale? L'economia di Stato pianifica i bisogni dei cittadini e la loro soddisfazione, ma è anche costretta a regolare ogni attività economica e, conseguentemente, ogni libertà degli individui. Basterebbe questo perché ogni persona di buon senso ne diffidasse; ma esistono persone che non tollerano che qualcuno abbia di più di altri o abbia maggior successo di altri, come avviene invece nel libero mercato. Costoro ritengono che solo lo Stato possa essere giusto nella distribuzione delle soddisfazioni e delle responsabilità, perciò sostengono il ruolo dello Stato, quello assistenziale incluso. Tuttavia questa speranza - o aspirazione - non dovrebbe più sussistere: l'economia dirigista dei Paesi comunisti è fallita e quella cosiddetta mista o assistenziale delle nazioni europee è gravemente ammalata; sopravvive solo nei Paesi che sono ancora ricchi, dove parte della ricchezza prodotta grazie al mercato viene trasferita alla quota di cittadini che, per varie ragioni, sono sottratti alle rigide regole di mercato che non avrebbero consentito tale deroga. Il trasferimento di ricchezza, chiamiamolo di solidarietà, per tutelare chi è più debole, è normale e anzi dovuto in una società civile che può permettersi questo "lusso". Quando però questo trasferimento diventa una formula politica e sociale e la gestione stessa del trasferimento, attraverso la spesa pubblica, produce spreco e abusi - che vengono coperti con maggiori tasse e con servizi pubblici sempre più scadenti o sempre più a carico dei cittadini - la burocrazia assorbe sempre più entrate e le tasse diventano intollerabili. È il collasso dell'economia. Inoltre, lo Stato assistenziale concorre a deresponsabilizzare il cittadino e persino a limitare le sue potenziali capacità personali, la sua creatività, insomma. Lo Stato imprenditore, datore di lavoro, "protettore" della vecchiaia, della salute, dell'istruzione sopprime in realtà le scelte libere e le responsabilità personali e non espone l'individuo al necessario e opportuno rischio per le proprie scelte. L'intervento dello Stato in economia non solo scoraggia l'iniziativa dei privati e produce sprechi e ingiustizie ma rende i lavoratori indifesi e dipendenti. Infine, produce povertà diffusa.