Il Placido feroce spara sulla politica
«Ci sono persone che stanno in Parlamento che hanno fatto peggio di Vallanzasca. Prima di fare questo film mi sono posto il problema, dato che sono stato prima in un collegio di preti e poi ho fatto il poliziotto. Qualcuno dice che Vallanzasca è un personaggio troppo bello, ma negli anni Settanta è stato un vero mito, e se lei incontra Vallanzasca oggi ne viene subito sedotta». Parole di Michele Placido alla presentazione del film sul bel René, ospite ieri fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Quello di spararla grossa «da sinistra» è sempre stata un'abitudine ed anche una tecnica pubblicitaria dei cinematografari italiani ed europei. Così come su un altro piano lo è la rilettura romantica dei miti del male nel cinema mondiale: basta pensare al recente, bellissimo, "Nemico pubblico" di Michael Mann con Johnny Depp. O ai vari Bonnie & Clyde. Non ci risulta, però, che Depp, Mann, e neppure Arthur Penn e Warren Beatty – regista e protagonista di "Gangster Story" del '67 - né Bob Dylan che scrisse la celeberrima musica per «Pat Garrett & Billy the Kid» anche allora in piena contestazione, abbiano mai accusato i politici americani di essere pluriomicidi. Michele Placido – che già con «Romanzo criminale» ha strizzato l'occhio a giustificazionismo e complottismo spinto - è convinto che ce ne siano oggi tra i nostri parlamentari? Qualcuno, tra gli innumerevoli responsabili di Venezia 2010 e nell'intellighentsia lagunare, è in grado, certo non di censurare, ma almeno di discutere queste affermazioni? La realtà è che, un po' come Cannes e Berlino, ma superandole di slancio, la mostra veneziana sta sempre più prendendo una deriva iperpoliticizzata, e che questa deriva è inversamente proporzionale alla qualità e al successo di ciò che si vede al Lido. Venezia 2010 non decolla, oscillando al solito tra super-denuncia e commedie situazioniste. Mancano nel frattempo le grandi storie che prendono gli spettatori, le grandi produzioni indicative certo del potere di Hollywood, ma spesso anche in grado di garantire grandi successi. In altre parole, a latitare dalla rassegna veneziana è proprio il termine "grande": in ogni senso, compresa (se ci passate il termine) la paraculaggine politica. Che per essere davvero tale deve contenere un po' di ironica consapevolezza. Al contrario, partita all'insegna del "niente star system", e dunque con pochi divi sulla passerella, cancellata "per rigore" la grande festa sulla spiaggia dell'Excelsior, la Mostra si è offerta in grigia versione autarchica, ma d'assalto. Catherine Deneuve e Sofia Coppola, con il loro brio, non sono state sufficienti, finora, a supplire all'assenza dei divi americani e non. Perfino l'Italia appare mal rappresentata: Placido a parte, il film sulla strage di Nassiriya – il cui regista è riuscito a polemizzare sia con le famiglie dei caduti sia con il governo – e poi il debutto di Ligabue, che ovviamente ci assicura di volere "un Paese diverso", non rendono giustizia al nostro cinema, neppure in tempi di magra. Anche perché se siamo ormai abituati a non reggere più il confronto con il cinema straniero, mostre e festival sarebbero lì apposta per sollecitare il salto di qualità, il ritorno ad un po' della gloria passata. Nomi come George Clooney, Brad Pitt, Johnny Depp, Angelina Jolie, e perfino il thriller "The Tourist", ambientato proprio a Venezia, hanno rinunciato. Così come Universal, Paramount, Columbia, Warner e Disney. Assenti o quasi il cinema australiano, grande protagonista di questi ultimi anni per qualità e spattacolo. In compenso, una rassegna di cinepanettoni: nulla da dire, ma la si trova anche su Sky. La sensazione è che Venezia sconti tre handicap. Il primo è lo snobismo delle rassegne europee. Anche Cannes se ne fregia, tuttavia non rinuncia né ai divi né alle major. Il secondo handicap è la litigiosità perenne dei suoi vari direttori, frutto a sua volta dei contrasti nella rassegna madre, la Biennale. Baruffe che cessano solo quando partono le critiche al governo ed al bersaglio fisso del ministero dei Beni culturali, che pure mette sette dei 12 milioni di budget. Il terzo handicap è la mai risolta gelosia verso la Festa del Cinema di Roma, che seguirà a fine ottobre e che è stata preceduta dal Roma Fiction Fest. Le rassegne romane sono state fin dall'inizio bollate dai veneziani come troppo rivolte alle star ed al business. Anche quando era Veltroni a gestirle. Che Venezia per riguadagnare audience si affidi alle sparate di Michele Placido, così come la sinistra a quelle di Marco Travaglio, non sembra proprio una garanzia di successo.