La scuola dei ragazzi di Barbiana e i segreti per diventare lettori
Sirespira la tipica aria da rientro a scuola. Improvvisamente si sono materializzate file di mamme, papà, ragazzotti/e di medie e superiori davanti alle librierie specializzate e nei vari mercatini dell'usato per comprare i testi scolastici. Molti di loro, a fine anno, rimarranno intonsi, alcuni verranno aperti non oltre la pagina dieci: i programmi sono troppo vasti, si lamentano i prof. L'istituzione scolastica ha ispirato (e continua ad ispirare) tanta letteratura. Tranquilli però non parleremo del «Cuore» deamicisano che, ahimé, i ragazzi di oggi praticamente ignorano ma di un libricino che negli anni Settanta era considerato un must e che oggi, fa ganzo citare sempre in maniera strumentale. Questo crea il sospetto, però, che tra i molti adulatori, sono pochini quelli che lo hanno realmente letto. Si tratta di «Lettera a una professoressa» della Scuola di Barbiana (Libreria Editrice Fiorentina) scritto da otto adolescenti della scuola di Barbiana, un piccolissimo e povero paese del Mugello, e supervisionato dal loro parroco Don Lorenzo Milani. Il testo è in forma epistolare, risale al 1967, cinque anni dopo l'avvio della legge che introduceva l'obbligo scolastico alle Medie. Gli autori sono figli di contadini e operai. La professoressa, in questione, è un'insegnante di Firenze che aveva bocciato due di loro che si erano presentati come privatisti agli esami di terza media. Comincia con un atto di accusa contro il metodo della bocciatura: «Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate». Barbiana, invece, fu una scuola sui generis. «Niente cattedra, né lavagna né banchi. Di ogni libro c'era una copia sola. E i ragazzi gli si stringevano sopra». Fu un raro e isolato esperimento di cultura popolare antitetico a quella dominante, astratta e avulsa dalla realtà. «La scuola sarà sempre meglio della merda: questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Migliaia di ragazzi contadini sono pronti a sottoscriverla. Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati»: così s'esprimevano i ragazzi di Barbiana. Sembrano passati anni luce. Denunce e proposte, perfino quella di rendere il tempo pieno obbligatorio per i figli bisognosi. E poi la grande intuizione, l'aver individuato il vero e unico scopo della scuola che non è distribuire diplomi ma «insegnare una lingua per essere uguali». Si parla di scuola e viene in mente Daniel Pennac. C'è un libretto, scritto dall'illustre professore parigino nel 1992, che dovrebbe essere letto obbligatoriamente nelle scuole. S'intitola «Come un romanzo» (Universale Economica Feltrinelli). Ha un intento nobile quanto difficile: insegnare l'amore alla lettura ai ragazzi (ma i suoi consigli vanno bene per tutti). Si parte dal concetto che il verbo leggere, come amare e sognare, non sopporta l'imperativo. E dalla verità che i libri sono stati scritti non «perché mio figlio, mia figlia o i miei alunni li commentino ma perché se ne hanno voglia li leggano». Pennac esaltando «il leggere alla rinfusa anzi il festino della lettura per il piacere di leggere» si mette dalla parte del lettore e stila perfino un decalogo dei suoi sacrosanti diritti. Primo fra tutti il diritto di non leggere, poi quello di saltare le pagine, di non finire un libro e anche di rileggere (qualcosa che la prima volta lo aveva respinto). E poi il diritto di leggere qualsiasi cosa anche i «cattivi» romanzi, quelli che sono la riproduzione di «formule» prestabilite. In fondo il romanzo cavalleresco e il romanticismo non hanno sfornato capolavori immensi come il Don Chisciotte e Madame Bovary?