Venezia la "rossa"

Non poteva esistere una passerella più becera di quella che ha inaugurato ieri la 67esima Mostra del Cinema a Venezia. L’arte, rappresentata in uno dei festival italiani dal passato illustre, viene oggi travolta dall'aggressione politica e Venezia si tinge inevitabilmente di rosso. Rosso soprattutto per il livore di quanti hanno fischiato sul red carpet Gianni Letta, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentante emblematico dell'attuale governo. Non solo appena arrivato sulla passerella, Letta è stato fischiato, ma alcune persone del pubblico gli hanno persino urlato «a casa, a casa!». A casa dovrebbero andarci loro per sfogarsi con individui della loro risma. È evidente che i fischi a Gianni Letta vanno oltre la sua figura di raffinato uomo politico e di grande giornalista. Il Sottosegretario è diventato il bersaglio di un'idea, di una classe, di una forza politica e sociale da disprezzare. Ma alla Mostra di Venezia non dovrebbero andare solo cinefili appassionati, amanti delle pellicole che restituiscono ai loro occhi uno sguardo artistico esaltando quel prurito capace di smuovere le loro menti verso diversi orizzonti? Orizzonti ben più alti di quelli che un nugolo di quattro scalzacani, forse mandati apposta lì solo per un'azione del genere da chi predica il cambiamento, la sopraffazione e il disordine di uno stato democratico legittimamente eletto dal popolo. Ci sarebbe dovuto essere un controcanto, esplosivo e mirato, pronto ad azzittirli con una sola parola: «Vergogna! Vergogna!». È così che l'Italia va a rotoli, è così che il cinema rischia di essere penalizzato dall'ignoranza più insolente che doveva, in qualche modo essere frenata o prevenuta. Meno male che poi, una volta dentro, i fischi sono diventati applausi da parte del pubblico della platea a favore del sottosegretario alla presidenza del Consiglio che si è poi detto molto soddisfatto per l'accoglienza alla Mostra e ha sottolineato di non aver sentito fischi all'esterno.   Ma quest'anno la Mostra sembra essersi assopita. E non solo per questioni etiche o di buon costume. Ma soprattutto dal punto di vista squisitamente artistico. Già, perché con un presidente di giuria come Quentin Tarantino (ben noto fan di film italiani anni '70 compreso il genere del cosiddetto B-Movie) e con tante belle commedie in uscita, quale occasione migliore per il direttore Marco Müller per inserire nel concorso della Mostra del Cinema una bella commedia italiana. Ma Müller, forse perché già pensa di tornare alla fine del mandato (2012) al suo lavoro di produttore, non ha voluto osare. Anzi. Ha voluto selezionare i suoi preferiti film asiatici, meravigliosamente artistici, ma certo poco amati dal nostro pubblico, o meglio dai nostri esercenti ai quali nemmeno sfiora l'idea di proiettare una di quelle pellicole, sebbene commoventi ed emozionanti, nelle sale. C'è pubblico e pubblico, si sa. E a testimoniare i gusti degli italiani è bastato il vero e proprio assalto di fan per l'arrivo di Carlo Verdone sul Lido, dove ieri ha presentato, nell'ambito di una retrospettiva sulla comicità nostrana, il suo vecchio film «Compagni di scuola». È stato accolto da urla di incitamento e richieste di autografi da una folla di persone di tutte le età. Fino a ricevere l'abbraccio d'eccezione, quello del presidente della giuria Quentin Tarantino, che lo ha salutato come un amico. Certo, Verdone è felice che Venezia abbia dedicato una retrospettiva al genere comico «perché ha dato moltissimo al cinema italiano ed è riuscito a raccontare il nostro Paese meglio di altri generi cinematografici», ha detto l'attore con la sua proverbiale discrezione e quel pizzico di amarezza che sale sulle labbra di quanti amano il nostro cinema.   È così che Marco Müller si è visto, forse, costretto a promettere qualcosa di grosso: «Ora vorremmo Carlo Verdone a Venezia e in concorso. Se riusciremo a convincerlo sarà il benvenuto. Vedremo», ha detto il direttore del festival lagunare. Un rimando diplomatico. Ma non poteva invitarlo prima in concorso? Invece di tenere i nostri grandi comici in seconda fila. E persino l'omaggio al grande Mattatore, Vittorio Gassman, è passato quasi in sordina, nel giorno della pre apertura e a tarda ora. Ma the show must be go on. Ed ecco che qualche altro fischio (moderato) parte nella proiezione del film d'apertura di Darren Aronofsky (già Leone d'oro con «The Wrestler» nel 2008). «Black Swan» mette ancora una volta in competizione i corpi, ma stavolta nel campo del balletto classico senza esaltare nemmeno il ruolo di Natalie Portman che, per diventate prima ballerina newyorkese, scoprirà le sue pulsioni lesbiche, frutto di un difficile rapporto con la madre. Il clou della competizione esploderà con Lily (Mila Kunis) con cui intreccia inevitabilmente una relazione erotica e alla fine il suo corpo sarà perfetto per il ruolo del Cigno Nero. La frase cult è arrivata da Vincent Cassel (anche lui nel cast) che parlando del ruolo del ballerino ha esordito: «È come fare il prete. Ci vuole vocazione, è durissimo e non si fanno soldi. Un mestiere da evitare». Altra nota dolente per la Mostra veneziana il forfait di Jafar Panahi, indotto dal governo iraniano. Il regista (leone d'oro nel 2000 con «Il cerchio») avrebbe dovuto presentare alle Giornate degli Autori il suo «The Accordion»: ma «io stesso non so perché c'è questo accanimento dell'Iran nei miei confronti, forse perché faccio film per la gente, la società e le autorità non amano questo. Intanto, è da dieci mesi che non ho il passaporto. Me lo hanno ritirato mentre ero all'aeroporto per andare a a Parigi. È da allora anche io e il mio avvocato cerchiamo di capirne la ragione. Invano».