Quell'insostenibile attrazione del «dopo»
Tra atmosfere tetre e sinistre al punto giusto. E nella città giusta. Lo farà Umberto Eco nel suo libro in uscita ad ottobre da Bompiani ( «Il cimitero di Praga»), un romanzo ambientato nel XIX secolo dove sovrani e cospiratori, uomini politici e spie giocano tra umano troppo umano, inumano e sovrumano; lo stanno facendo Enrico Rulli e Gianluca Casseri («La chiave del caos», prefazione di Gianfranco de Turris, Il punto d'incontro) con una storia che si svolge nel XVI secolo e dove c'è posto per manoscritti criptici, ludi ermetici e donne magiche, con l'alchimista John Dee impegnato a scioglier trame ed echi e suggestioni di Giordano Bruno, Gustav Meyrink e H.P.Lovecraft in ordine sparso. In ogni caso, l'aura cimiteriale alimenta l'immaginario. Perché i camposanti (e anche i campi non santi dove allegramente si aggirano demoni e spettri) da sempre fanno prosperare la fantasia. E se l'uomo della strada ama nel brivido la suggestione di un invalicabile ma pur sempre appetibile «oltre», i letterati, vagabondando tra tombe e dintorni, si lanciano in vorticose riflessioni sulla brevità della vita, sul senso dell'esistenza e su quel «dopo» che per qualcuno è il nulla, il vuoto, un'immensa distesa di bianco abbagliante; per qualcun altro è il compimento e la vita eterna nella gloria di Dio; per qualcun altro ancora è uno spazio abitato da quelle «illusioni» che, dopo averci aiutato a vivere, ci fanno accogliere la morte senza soverchi affanni. Purché - «docet» Ugo Foscolo nei «Sepolcri» - il nodo di affetti tra vivi e morti non venga mai meno; purché l'archivio delle care memorie sia sempre «visitato» dalle lacrime e dalle preghiere di chi resta e pietosamente testimonia la forza di un legame; purché chi giace nel freddo del sepolcro lasci dietro di sé ricordi esemplari che valgono come eredità valoriali su cui costruire opere e giorni. Ecco, allora, il cimitero-tempio di Santa Croce con le tombe dei grandi - Michelangelo, Machiavelli, Galileo... - dinnanzi alle quali ci si inginocchia pensosi e reverenti, attingendo lezioni di vita e stimoli ad andare avanti «nel» tempo e «contro» il tempo, se necessario, allorquando i nostri slanci ideali siano penalizzati dallo squallore che ci circonda. Ma che non deve avvilirci, anzi: non è questo l'insegnamento che ci viene dai sepolcri dei magnanimi? Quanto al poeta, anche il suo compito è quello di eternare. La poesia può essere roccia, pietra e marmo al pari del sepolcro. E come il sepolcro annulla, nella pace eterna, il divampare degli odi che dividono gli uomini. La poesia «condivide», unisce, onora al tempo stesso vincitori e vinti, più che mai quando in comune ebbero generosità e valore guerriero. Dunque, canta «insieme» al greco Achille, canta il troiano Ettore e il suo sangue, «per la patria versato». Così come, nei luoghi dove fieramente si sono scontrati gli eserciti avversari, la polvere depositata dal tempo anche sui sepolcri non ne svilisce la dignità. Retorica? Beh, se consideriamo quanto oggi si voli «basso», è chiaro che tutto ciò che esorta al «sublime» appare «ridicolo». In ogni caso, anche nella dimensione più domestica e, diciamo così, «feriale», possiamo imparare qualcosa dai morti. Ad esempio, quanto ogni vita, anche la più modesta ed «elementare», abbia un senso e si possa fregiare di una cifra unica. È, di sicuro, «piccola gente» quella cantata da Edgar Lee Masters nella «Antologia di Spoon River», ma ognuno ha qualcosa da raccontare e quel che racconta diventa comunque importante e significativo a futura memoria. Nelle biografie compendiose delle epigrafi che parlano ed evocano, l'evento-vita, per minimale che sia, dunque senza alcun «effetto speciale», sottrae ognuno all'anonimato. Ci siamo stati, abbiamo amato, abbiamo sofferto: magari umiliati e offesi, «contavamo» prima e «contiamo» dopo. M.B.G.