L'arte di sedurre dei libertini e quella di inventare le parole
Sonoalmeno due i motivi che accendono improvvisamente i riflettori sul classico dei classici della letteratura francese settecentesca «Le relazioni pericolose» di Pierre Choderlos de Laclos (ripubblicato di continuo da varie case editrici). Proprio di recente il titolo del libro è stato citato per ricamare intorno all'affaire Tulliani-Fini. Passi per il titolo! Ma l'accostamento è improponible (inopportuno?) per quanto riguarda il resto. E ora veniamo al secondo motivo: l'imminente Festival del Cinema di Venezia avrà in gara vari film tratti da best-sellers («La solitudine dei numeri primi» di Paolo Giordano, «La versione di Barney» di Mordecay Richler, «Norvegian Wood» di Murakami Haruki tanto per citarne tre). E di film sulle liasons dangereuses ne sono stati realizzati parecchi. Ma il più bello è quello diretto da Stephen Frears (1988) con un cast stellare: Glenn Close nei panni dell'intrigante Marchesa de Merteuil, il diabolico Valmont-John Malkovich, la dolce Madame de Tourvel-Michelle Pfeiffer, l'eterea Cécile-Uma Thurman e il gagliardo Danceny–Keanu Reeves (Danceny). Teniamo a mente i volti di questi attori quando rileggiamo il testo che è poi la bibbia dei libertini di allora e di sempre realizzata sotto forma di uno strabiliante romanzo epistolare. Un libro che soddisfa i palati di tutti: quelli convinti di vivere in un mondo privo di nuances abitato da lupi famelici e da agnelli sacrificali e i fautori dei finali edificanti, di una qualche provvidenza che punisce esemplarmente coloro che si macchiano di malvagità gratuite. È il romanzo dell'abiezione e del cinismo di chi fa del male per il gusto di farlo, l'inno della seduzione fine a sè stessa, ammantata da falsi sentimenti. Ma al di là del plot dove s'intravede la condanna per una classe sociale (i nobili del Settecento) amorale, corrotta e definitivamente persa, l'incanto è tutto nello stile letterario del prodigioso De Laclos raffinato e profondo e nella capacità di rendere i suoi personaggi così autentici nella loro artificiosità. Dal Settecento alla Roma del dopoguerra: «Quer pasticiaccio brutto de via Merulana» il capolavoro dello scrittore-ingegnere milanese Carlo Emilio Gadda. Rilettura doverosa dopo l'allarme del saggista siciliano Vincenzo Consolo a proposito dell'abuso del dialetto nella letteratura italiana: «Trovo abominevole l'uso che in molti romanzi contemporanei si fa del dialetto. Ovvero scrivere in italiano, utilizzando i dialettismi». Consolo cita (in positivo) solo le operazioni di Pasolini e del poeta Zanzotto. Noi analizziamo pure Gadda dal punto di vista del dialettismo (i «romaneschismi» del Pasticciaccio che definirlo soltanto un libro giallo è decisamente riduttivo) e del suo giocare con le parole, le allocuzioni, le onomatopee, i gerghismi, quella sua abilità nell'impastare neologismi, la sua impertinenza nell'infrangere le regole. Insomma la nobile arte dello sperimentare, qualcosa che ormai s'è persa per sempre. Un solo esempio, la descrizione del ritrovamento del cadavere sgozzato di Liliana. «Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d'un rosso nero. S'era accagliato sul pavimento, sulla camicetta tra i due seni... il naso e la faccia, così abbandonata come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte». Ma non fa venire i brividi?