(...) di moda, quasi un gioco intellettuale, stabilire paragoni tra la situazione politica di allora e quella del 1922.
Erammento - lo ricordo per incidens - che uno storico di grande onestà intellettuale e di grande sensibilità culturale come Renzo De Felice, con scandalo degli intellettuali à la page e dei profeti di sventure, volle richiamare l'attenzione sulla impossibilità di fare confronti e paralleli, cercando o inventando analogie storiche o coincidenze, fra situazioni profondamente diverse. Lo fece, De Felice, in una intervista che mi rilasciò per il settimanale del Partito liberale, L'Opinione, allora rinato per iniziativa del compianto amico Paolo Battistuzzi. E scoppiò un putiferio mediatico quasi che il negare che sussistessero somiglianze fra i momenti critici della prima repubblica e il tramonto dello Stato liberale significasse - chissà in base a quale complicato argomento logico - riabilitare surrettiziamente il fascismo. Adesso i tempi sono cambiati. Viviamo in una repubblica piena di difetti, ma pur sempre una repubblica fondata - grazie a una legge elettorale diversa da quella proporzionale pura che aveva dato origine a un sistema politico bloccato e privo di alternanza - su un bipolarismo che, piaccia o non piaccia, è entrato a far parte ormai del patrimonio politico del paese. E che - riconosciamolo pure - ha, in qualche modo, assicurato l'alternanza nei ruoli di governo e di opposizione delle coalizioni contrapposte. Anche in questa nuova situazione, la moda dei paragoni storici non è venuta meno. Pur se, ad onor del vero, ha subito una metamorfosi significativa: il confronto, infatti, non è più con il 1922, ma con il 1924, con la vigilia cioè di quelle elezioni che, effettuate con una legge elettorale di tipo maggioritario, consentirono a Mussolini di conquistare la maggioranza in Parlamento e, di lì a poco, dopo il delitto Matteotti e il discorso del 3 gennaio 1925, di avviare la «svolta» autoritaria del regime. La presunta analogia fra la situazione presente e quella del 1924 è stata sottolineata da Riccardo Chiaberge, il quale, evidentemente, teme che eventuali elezioni anticipate effettuate con la legge elettorale vigente possano tradursi in una nuova affermazione del centrodestra destinata a essere il prodromo per la trasformazione del sistema politico attuale in un regime illiberale e totalitario guidato da un Berlusconi nei panni di un redivivo Mussolini. Il suo discorso, però, non sta in piedi né dal punto di vista storico né dal punto di vista politico. Non sta in piedi perché l'Italia di oggi non è l'Italia di ieri. E perché Berlusconi non è Mussolini. Ma soprattutto perché i paragoni storici fra epoche diverse sono sempre inaffidabili. E sono, sotto sotto, il frutto di quella illusione consolatoria secondo la quale la conoscenza della storia dovrebbe far sì che gli uomini non ricadano negli errori del passato. Ma la storia, come ben si sa, non è affatto quella magistra vitae dell'antico e ben noto adagio. E - va detto - con molto garbo Emilio Gentile ha replicato a Chiaberge ricordandogli, sia pure implicitamente, la necessità di non confondere gli avvenimenti di ieri con quelli di oggi, precisando alcuni punti storicamente rilevanti e invitandolo, anche, a non cullarsi nella illusione della natura pedagogica della storia. Tuttavia anche alcune delle considerazioni fatte da uno storico di indubbio valore qual è Emilio Gentile meritano di essere discusse. A Chiaberge il quale lascia intendere che le elezioni del 1924 significarono il suicidio del Parlamento, Gentile replica osservando che questo si era già suicidato nel 1922 quando aveva concesso la fiducia al primo governo Mussolini. In realtà le cose stanno diversamente, se non per altro, per il fatto che la conclusione della crisi del 1922 avvenne secondo la prassi. Tant'è vero che il governo che ne seguì fu, in realtà, un governo di coalizione non troppo dissimile dai governi dell'Italia liberale, semmai con il baricentro politico più spostato sulla destra. La marcia su Roma, in realtà, ebbe poco del carattere epico e rivoluzionario che in seguito il regime - alla comprensibile ricerca di una legittimazione mitica - volle attribuirle. Non a caso gran parte della storiografia fa partire la storia del regime fascista non già dal 1922, ma dalla svolta autoritaria impressa da Mussolini all'inizio del 1925. Ho detto «svolta autoritaria» e non totalitaria perché, per molto tempo, almeno fino alla metà degli anni trenta, il fascismo non fu un regime totalitario nel senso proprio del termine quale venne concettualizzato da studiosi come Hannah Arednt e Domenico Fisichella. Fu piuttosto - quanto meno nelle intenzioni dell'architetto del regime Alfredo Rocco, dei suoi collaboratori e, probabilmente, dello stesso Mussolini che aveva dismesso gli abiti del rivoluzionario in servizio permanente effettivo - un regime autoritario di tipo classico. E, in seguito, quando si decise di procedere in qualche modo alla «totalitarizzazione» del paese, gli ostacoli furono tali e di non poco conto - a cominciare dalla presenza della Chiesa sul territorio italiano e a quella della Monarchia sul terreno istituzionale - da rendere l'impresa di non facile realizzazione. Ma torniamo al 1924 e alla legge elettorale maggioritaria di allora e, per trasposizione, a quella oggi in vigore. La verità è che le leggi elettorali non sono mai, di per sé, liberticide. Sono le circostanze politiche che determinano la sopravvivenza o meno di una democrazia, Mussolini nel 1925, indebolito dalle conseguenze del delitto Matteotti, e sotto la pressione dell'intransigentismo fascista, attuò la «svolta» autoritaria decretando la fine dell'Italia liberale. La legge elettorale in vigore in Italia oggi, il cosiddetto Porcellum, è una legge, in parte maggioritaria e in parte proporzionale, costruita per semplificare il quadro politico e garantire la maggioranza assoluta alla coalizione vincente. Ma è una legge - pur migliorabile quanto si vuole - che non impedisce affatto, come si è visto, l'alternanza delle coalizioni nei ruoli di governo e di opposizione. A patto che tali coalizioni abbiano davvero dei programmi alternativi. Il fascismo in tutto ciò non c'entra affatto. Anche perché il fascismo è morto e sepolto. C'è, soltanto, in giro un fantasma - un incubo, se si preferisce - che turba i sonni degli intellettuali à la page e li rende nervosi: il fantasma di un fascismo non ben definito né individuato nelle sue caratteristiche, ma idealizzato come una icona paradigmatica della incultura e del male assoluto.