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Navi d'Italia perdute per tradimento

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«Tuttinoi siamo dolenti che la nostra preda sia diminuita»: con queste parole il Comandante Harry C. Butcher, aiutante navale del Generale Eisenhower, commentò nel suo diario l'affondamento, ad opera di bombardieri tedeschi, della corazzata italiana. La nostra flotta, come è noto, rappresentava per gli Anglo-americani una preda molto ambita e il peso che la sua sorte ebbe nelle trattative che portarono all'armistizio dell'8 settembre 1943 viene oggi documentato da Elio Lodolini, il decano degli archivisti italiani, nel capitolo di un suo recente volume («Dal Governo Badoglio alla Republica Italiana. Saggio di storia costituzionale del Quinquennio rivoluzionario 25 luglio 1943-1° gennaio 1948», Genova 2010). Il volume si dedica a svolgere importanti e documentate precisazioni all'«affermazione corrente secondo cui la Marina avrebbe immediatamente e "disciplinatamente" accettato l'armistizio, trasferendo le navi a Malta». Come ricorda Elena Aga Rossi nel suo fondamentale saggio «L'inganno reciproco. L'armistizio tra l'Italia e gli Anglo- Americani del settembre 1943», fin dalle prime fasi dei contatti con gli Anglo-Americani era stato da parte italiana espletato il tentativo di eliminare dalle clausole armistiziali la consegna della flotta in porti sotto controllo dei nostri nemici: le navi italiane si sarebbero concentrate in Sardegna, anche a protezione del Re e del Governo che, lasciata Roma, avrebbero raggiunto la più sicura sede dell'isola. Gli Alleati respinsero sempre decisamente la proposta italiana e il 6 settembre, ad armistizio già firmato il 3 dello stesso mese, all'Ammiraglio Raffaele de Courten, Ministro della Marina nel Governo Badoglio e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, fu trasmesso il promemoria inglese che indicava le località sotto controllo alleato verso le quali la flotta italiana avrebbe dovuto dirigersi una volta proclamato l'armistizio. Dura fu la reazione negativa di de Courten che, tenuto all'oscuro dell'avvenuta conclusione dell'armistizio, la mattina del 7 settembre incontrò a Roma l'Ammiraglio Carlo Bergamini, Comandante in capo della squadra da battaglia: Bergamini gli riferì sullo spirito della flotta affidata al suo comando, "pronta ad uscire per combattere nelle acque del Tirreno meridionale (in concomitanza con lo sbarco degli Alleati a Salerno) la sua ultima battaglia. Comandanti ed ufficiali erano, secondo l'Ammiraglio Bergamini, perfettamente consci della realtà cui sarebbero andati incontro, ma in tutti era fermissima la decisione di combattere fino all'estremo delle possibilità”. Scrisse l'Ammiraglio de Courten in una sua relazione del 12 febbraio 1944: «Ricordo questo colloquio con commozione perché dalle parole di quell'uomo vissuto sempre sulle navi e per le navi emanava senza alcuna iattanza la tranquilla sicurezza di poter chiedere al potente organismo nelle sue mani lo sforzo estremo e il sacrificio anche totale». Violenta fu la reazione dell'Ammiraglio Bergamini quando apprese dalla radio l'avvenuta conclusione dell'armistizio: in un colloquio telefonico con de Courten affermò esplicitamente che «non intendeva assolutamente andare a fare il guardiano di navi in consegna al nemico» e convocò, alle 22 dell'8 settembre, sulla corazzata «Vittorio Veneto», una riunione degli ammiragli in sottordine e comandanti di navi, che si espressero «all'unanimità per l' autoaffondamento della flotta». Fu solo insistendo sul dovere di ubbidire agli ordini del Re e sulla speranza che una futura collaborazione della flotta alle operazioni di guerra degli Alleati avrebbe inciso positivamente sulla sorte futura dell'Italia sconfitta che de Courten ottenne l'uscita in mare di Bergamini per trasferire la squadra a La Maddalena, meta tassativamente esclusa dalle clausole armistiziali e da reiterati divieti dei comandi nemici. Giunta la notizia che la base sarda era caduta sotto il controllo dei tedeschi, fu ordinato a Bergamini di invertire la rotta verso ponente per dirigere, nel caso non si fossero autoaffondate le navi, o verso i porti neutrali della Spagna, o verso Bona: fu quest'ultima meta che Supermarina assegnò alle nostre navi, passate agli ordini dell'Ammiraglio Oliva, dopo l'affondamento della «Roma» ad opera di bombardieri tedeschi. Al largo di Bona, nella mattinata del 10 settembre, la squadra italiana ebbe dagli Inglesi l'ordine di dirigere a Malta. Opposizioni alla consegna delle nostre navi al nemico si ebbero anche in alcuni porti, ma in generale prevalse il senso del sacrificio dell'onore militare a un migliore destino della Patria, sacrificio rivelatosi sterile di risultati se si considera la sorte che i nostri nemici riservarono alle navi italiane, pure impegnate al loro fianco negli ultimi mesi del conflitto, dopo la cessazione delle ostilità: di varie unità navali si impadronirono alcuni paesi nemici, mentre le corazzate della squadra da battaglia, delle quali si era favoleggiato un impiego, sotto bandiera italiana, nella guerra contro il Giappone, internate nei Laghi amari lungo il Canale di Suez, non furono mai più restituite all'Italia, fino alla loro demolizione. Gli uomini della X Flottiglia MAS avrebbero cantato sui mari e per le contrade d'Italia, nei giorni atroci della guerra civile, «Navi d'Italia, che ci foste tolte, non in battaglia , ma per tradimento, noi vi riporteremo alla vittoria...».

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