Mura dimenticate
Treripidi scalini, una porta stretta stretta, una targa: «Scuola di ceramica, Associazione Arte Educatrice». È al n. 8 di via Campania, la strada più a monte tra quelle che sboccano in via Veneto. Dalla porticina si entra nel «ventre» dimenticato di una cinta muraria che esiste da 17 secoli. In quella intercapedine profonda non più di tre metri si snodano (in altezza) stanze e stanzette, fino a una terrazza-camminamento scandita da merli. Vista mozzafiato, in cima a uno dei tratti meglio conservati (lo restaurò il generale bizantino Belisario, che si opponeva ai Goti) delle Mura Aureliane. Le stanzette erano il piccolo, segreto regno di un altro Belisario, Belisario Randone, maestro ceramista e capostipite di una famiglia di artisti (una figlia sposò il pittore Ferruccio Ferrazzi). Randone, solitario stakanovista arroccato lassù nonché esperto nella tecnica dei buccheri, aveva riprodotto nella creta tutto il perimetro delle Mura. Doveroso omaggio di «inquilino» all'imperatore Aureliano che nel 271 dopo Cristo munì Roma di una inespugnabile cinta difensiva: 383 torri-fortezza, 7020 merli, 116 latrine per la truppa, centinaia di feritoie e di finestroni. Di quei 19 chilometri di mura che racchiudevano 1350 ettari dell'Urbs (inglobando le tredici Regioni Augustee, il Colle del Gianicolo e la XIV regione, la Transiberina, al di là del Tevere) Roma conserva molto, a differenza dell'altra cinta, assai più antica, le Mura Serviane. Sono del VI secolo a. C, ne rimane un ammasso di blocchi di tufo di fronte alla Stazione Termini. Abbiamo ripercorso i 12,5 chilometri che ora restano delle Mura dell'Imperatore. Una passeggiata istruttiva, suggestiva e solitaria, ideale durante questo agosto frescolino. Istruttiva anche su come andavano certe cose a Roma e su come vanno ancora. Le mura per secoli sono servite da appoggio per tutto. Addosso a Porta Asinaria, sullo sfondo della Basilica di San Giovanni, fino agli anni Ottanta si montavano le bancarelle del mercato di via Sannio e, a fine giornata, si ammucchiavano rifiuti. Le proteste degli studiosi - specie di Ferruccio Lombardi, nipote del Ferrazzi e ahimè non parente di chi scrive - fruttarono un cancello di recinzione al monumento. Salvo il decoro, però le Mura restano per lo più inaccessibili nel loro insieme. Se ne parla solo quando ne cade qualche pezzo. Come anni fa a ridosso della Colombo o ad aprile scorso in via Nola. La città resta però indifferente alla sua cinta. Un tour settimanale guidato a tutto il percorso farebbe onore al Comune di Roma. Che ne dicono il sindaco, il sovrintendente Broccoli, l'assessore Croppi? Sarebbe il tuffo nella storia urbanistica della Capitale. Perché dentro le Mura si è sviluppata la città imperiale, quella dei Papi, quella moderna. Si sono sovrapposti acquedotti ed edifici. Le porte segnano assi direzionali, gli stessi della crescita della città. Da Porta del Popolo passavano i pellegrini e gli eserciti del nord. Da qui partiva il «tridente» che conduceva verso il Campidoglio, il Quirinale, dimora dei pontefici e, oltrepassato il Tevere, a San Pietro. Da Porta Nomentana (oggi non esiste più, se non per un fornice murato e una torre) la via Pia, voluta da Pio IV de' Medici, ancora in direzione del Quirinale; da Porta Tiburtina cominciava la via Sistina, fino a S. Maria Maggiore, al Quirinale e a Trinità de' Monti. Così si chiudeva il cerchio del centro cittadino. Poi, i varchi dei commerci e dei pellegrini: Porta San Paolo, vicino allo scalo fluviale di Testaccio, e Porta San Sebastiano, al principio dell'Appia, la regina viarum, da dove Carlo V nel 1536 entrò trionfatore in Roma con un corteo tanto imponente che si dovettero abbattere case. Porta San Sebastiano è un'enciclopedia dell'ars di costruire fortificazioni (e infatti ospita il Museo delle Mura). Dalla cella con finestre ad archetto si azionava la saracinesca che scendeva nella scanalatura. Poi c'è la controporta, un fornice dell'Acquedotto Antoniniano. Il doppio sistema di chiusura assicurava le milizie da attacchi dei nemici ma anche da insurrezioni popolari. Altre vestigia della cinta sono invece completamente cancellate, quasi anche dalla memoria. Come la Porta Salaria, a piazza Fiume. Fu abbattuta nel 1921 per far largo allo spiazzo. L'unica indicazione che rimane è una lapide di porfido incastrata nell'asfalto. Sopra sfrecciano gli autobus, perché proprio lì vicino c'è una fermata. Nessun cartello spiega. E il cittadino passa via, di fretta. Del resto, appena due chilometri più avanti, all'altezza del Policlinico e del Castro Pretorio la cinta è soffocata dal parcheggio delle automobili e dai chioschi-bar. In viale Pretoriano ne rimane qualche spezzone, a causa degli sventramenti per costruire il ministero dell'Aeronautica. Porta Tiburtina è quella che sta peggio: chiusa da un cancello arrugginito, deturpata da rifiuti. Avrebbe tanta storia da raccontare con il travertino bianco, le torri merlate, la cella intatta. C'è un toro magro scolpito in cima al fornice (allude alla povertà della campagna e dà il nome a via dei Taurini, una delle stradette della movida del quartiere San Lorenzo). E c'è un toro grasso nella controporta, fiera dello snodo fertile degli acquedotti (acqua Giulia, Marcia e Tepula). Resta anche un tratto di strada romana, perché da qui partiva l'asse sistino che raggiungeva la basilica di San Paolo fuori le Mura e il percorso delle Sette Chiese. Però pure in questo caso nemmeno l'ombra di un cartello a testimoniare. Così come a Porta Maggiore - un altro trancio di acquedotto inglobato nelle Aureliane - l'antico basolato convive a malapena con i capolinea dei mezzi pubblici. Nessuna meraviglia: a viale Carlo Felice s'appoggiava alle mura un deposito dell'Atac. Adesso un'officina è sistemata dentro Porta Tiburtina. Aureliano si rivolta nell'avello.