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Luca e Marirosa, i fidanzatini sulla coscienza sporca di un paese

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Ritirarefuori un giallo di 22 anni fa, la strana morte di due ventenni, i "fidanzatini di Policoro", archiviata alla svelta come incidente. Ripercorrere la storiaccia passo passo, con testimonianze, documenti, interviste. Indignarsi perché la verità non è quella che pare, ma è seppellita insieme con quei due studenti del Sud. E non fare - al di là dell'intento dichiarato - un libro-inchiesta, ma un affresco di una piatta città meridionale e di una svalorizzata società meridionale, tanto più svalorizzata quanto cresciuta appunto sulla roccia alta dei valori. Metterci dentro i ritmi serrati di una scrittura fine, senza fronzoli ma significante. Allora quello che leggiamo non è più, o solo, libro-inchiesta ma un romanzo-verità, con quella sequela di ritratti di personaggi che vengono avanti, come sul proscenio. E l'obiettivo «zooma» tanto su di loro che le facce appaiono deformate, come maschere di un thriller. È «La commorienza» di Andrea Di Consoli, intellettuale, poeta, critico, direttore editoriale, insomma uno che non si aspetteresti faccia il giornalista-detective. Ma questo è un meta-libro: tanto più è cristallino, tanto più rimanda ad altro. Come un quadro iperrealista. Lo dice subito il titolo, inusitato per significare di due che «muoiono contemporaneamente». Quei due sono Marirosa Andreotta e Luca Orioli. Trovati, la notte del 23 marzo 1987, morti in casa di lei, a Policoro. Tutti e due nudi. La ragazza immersa nella vasca da bagno, il ragazzo steso accanto. Li scopre la mamma, la signora Andreotta, tornando da un concerto. Chiama l'amica, il parroco, i genitori di Luca. Solo più tardi gli inquirenti. Coprono il ventre del morto con i jeans buttati a terra. Lei no, rimane nuda, col pube in vista, nell'acqua. Folgorati dallo scaldabagno, l'ipotesi sbrigativa avallata senza neanche l'autopsia. Poco importa che Luca avesse i pugni serrati e i genitali tumefatti, come dopo un calcio. Men che meno interessa che Marirosa ha una ferita alla nuca, che sanguina. Dunque, fatalità, lo scaldabagno rotto, che poi rotto non era. Salvo poi insinuare che Marirosa frequentasse festini conditi di droga e frequentati da notabili e politici locali. E comunque la questione va liquidata in fretta, dimenticata. Sconvenienti, i ragazzi schiattati nudi in un milieu piccolo borghese, provinciale, bigotto ma spregiudicato. «In Lucania, purtroppo, la donna è spesso puttana a prescindere e aver voluto rendere ambigua la figura di Marirosa è stata l'operazione più disonesta e cattiva che si potesse fare», s'indigna Di Consoli. Marirosa è il personaggio attorno al quale gira tutto il libro. Reale ed emblema. Più è obiettivo Di Consoli, più cresce il sentimento verso di lei. «In tutti questi mesi, oltre a leggere verbali, intercettazioni, perizie, articoli di giornale, ho soprattutto cercato il suo fantasma, il fantasma di Marirosa». Sicché l'«inchiesta» è anche un viaggio attorno a due concetti esistenziali. La perdita dell'innocenza, non solo dei «commorienti» ma di una società. E la banalità del male, a inverare la teoria di Hannah Arendt. Perché Di Consoli un'idea su com'è andata ce l'ha. È uno scherzo da bulli finito in tragedia, fa capire. Il bandolo della matassa era a portata di mano degli inquirenti, solo se un'intera comunità non fosse stata accecata dal conformismo. Il coraggio civile di denunciare come stanno le cose, dopo aver rimestato nel fango, l'autore lo ha avuto. Non servirà. Marirosa resta un'ombra inquieta. Riappare all'improvviso, dietro un angolo di Matera, sull'autostrada che porta laggiù, in Basilicata. Immagine senza pace di una terra che ha smarrito se stessa.

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