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«Pietro», il film italiano a Locarno

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Lofirma Daniele Gaglianone che, soprattutto con il suo primo, "I nostri anni", aveva dato valide prove sia nell'ambito di una solida drammaturgia sia riecheggiando gli impegni e la vitalità del nostro cinema civile. Meno saldo il suo secondo, "Nemmeno il destino", cui si è aggiunto però un documentario molto serio, ambientato in Bosnia, "Rata Nece Biti", premiato al Festival di Torino e, di recente, con il David di Donatello. Oggi si immerge nel nero e nel male, volutamente senza una luce. Ne è oppresso il personaggio che, con il suo nome, dà il titolo al film. Abita in una qualsiasi città di provincia, con un fratello dedito alla droga, in una piccola casa ereditata dai genitori, morti tutti e due. Per vivere, e mantenere il fratello, distribuisce volantini pubblicitari, mite, rassegnato, così umile e disponibile a tutto che si sottomette al ruolo di pagliaccio cui lo costringono gli amici del fratello, pronti a fargli sciorinare smorfie e gesti anche osceni senza una sua vera partecipazione, perché è un candido, unicamente per il loro volgarissimo gusto. Solo una volta Pietro decisamente si ribella, quando quei giovinastri, insieme con il fratello, indirizzano le loro persecuzioni ai danni anche di una ragazza cui si è un po' legato perché lo coadiuva nella distribuzione di quei volantini… Tutto crudo, con asprezze che, specie all'inizio, quando son descritte le povere pagliacciate cui Pietro deve soggiacere, rischiano perfino di non essere del tutto sostenibili. Però non oscurando mai il disegno psicologico e drammatico di quel personaggio sempre all'insegna della sconfitta, salvo nel finale in cui, mantenendo la sua immobilità disperata, si concede la pagina più bella, un lungo monologo in primo piano, di fronte a una sedia vuota che poi occuperà un poliziotto. La crea, con forte intensità, un giovane attore, Pietro Casella, noto finora soprattutto per esibizioni comiche sulle scene di un cabaret. Qui invece è il ritratto del perdente, con raccolto, dimesso dolore.

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