Dissidenza, una farsa all'italiana
Non fosse per la canicola, sentiremmo già alle nostre spalle il gelido soffio dell’orrore siberiano. Perché, da quando il Palazzo ci ha offerto il siparietto dello strappo finiano, è ufficialmente entrato a far parte del nostro lessico politico-mediatico il termine "dissidente". Che non evoca le manovre di parcheggio grazie alle quali - magari tamponandosi l'un l'altro sonoramente - i leader italiani cercano un posto nella piazza democratica: lascia pensare, piuttosto, ai lavori forzati per chi non è d'accordo con il tiranno. Ma basta farci l'orecchio, sentirselo ripetere dagli editorialisti lib-lab, dai commentatori illuminati, dagli opinion-maker del "pensiero contro", e il gioco è fatto: i colleghi di "Repubblica", per dire, hanno mobilitato la penna d'oro di Francesco Merlo per assimilare Fini a Sacharov, con una mirabile dissertazione nella quale entra di striscio pure Cristo, esempio di figura scomoda per il milieu ebraico di due millenni fa. Un pezzo magnifico, scritto e pubblicato probabilmente nell'ultimo giorno utile: dopo aver mostrato empatia - in chiave antiberlusconiana - per le sorti del presidente della Camera, a Largo Fochetti cominceranno presumibilmente a prendere le distanze dall'aspirante campione del neoprogressismo, almeno finchè la Procura non ci avrà visto chiaro sulla storia della casa di Montecarlo. Fini "dissidente"? Aldilà delle precisazioni etimologiche da accademia della Crusca, non sarebbe stato più corretto definirlo semplicemente un "dissenziente" dalla linea del Pdl? Figurarsi: a "Repubblica" non potevano rinunciare alla ghiottissima, anche se usurata, occasione di dipingere Berlusconi come un sanguinario dittatore, meglio se di stampo veterosovietico, così al paradosso di Silvio-Stalin mancano solo i baffoni. Però qualcosa non torna: se Ezio Mauro descrive il governo in carica come un "vascello fantasma", perché riempire la pancia del giornale con due pagine di riflessione sull'inverosimile spettro di un gulag a Montecitorio? La dissidenza è cosa storicamente ben più drammatica di una commediaccia all'italiana in cui uno dei protagonisti agita il ditino sotto il palco (un gesto da bullo che neanche nella saga del Monnezza), urla «allora che fai? Mi cacci?», e poi quando viene accompagnato alla porta denuncia "l'illiberalità" del premier capo del partito. Come tifare per le titubanze strategiche di un uomo che ha sentito sulle proprie spalle il carico insostenibile della successione ad Almirante, è andato a "depurarsi" le idee con le acque di Fiuggi, poi ha sciolto la compagnia di An (che pure aveva provato a seguirne i progetti), e infine, quando ha visto che non riusciva più a barcamenarsi fra la Casa delle Libertà e la Camera della campanella, ha deciso l'intemerata? Eppure, la sponsorship del foglio post-scalfariano per Fini è stata, ad oggi, la più lampante dimostrazione di come la sinistra sia definitivamente precipitata in un universo parallelo dove la Realtà può essere costantemente ridefinita, con l'esclusivo obiettivo dell'attacco al Principe. Immalinconiti dalla mollezza dell'opposizione ufficiale (attorno a Franceschini che concionava in Aula, l'altro ieri, i maggiorenti del Pd parevano tutti in letargo), a "Repubblica" si sono innamorati di Fini, l'uomo che finalmente, nelle odissee siderali del tatticismo neocentrista, sta tentando l'aggancio con il suo rivale per la corsa al Campidoglio '93, il poderoso Rutelli, e con l'eterno democristiano Casini. Per sostenerne il volo, si è discettato di "dissidenza", non di "diversità di idee" all'interno di un partito. Ma è difficile immaginare il sor Gianfranco alle prese con i 70 sottozero degli inverni sulle baracchette perdute nella tundra, in quegli angosciosi campi di concentramento sovietici dove sono morti in dieci milioni, internati che non condividevano la "linea" del Cremlino, e che venivano utilizzati - a costo zero e finché restavano in vita - per la costruzione della Transiberiana, del Canale sul Mar Bianco, perfino della sontuosa metropolitana di Mosca. Che il dissidente Fini venga spedito con pala e piccone in qualche cantiere per le Grandi Opere in Italia è un pensiero che non trova ospitalità neppure nella più feroce satira nazionale. La separazione tra due diverse anime del Pdl è un fatto politico clamoroso nella logica del bipartitismo, ma legittimo nelle meccaniche di una democrazia pur zoppa, arrugginita. All'epoca dei pentapartiti di questo si viveva, al momento di formare le maggioranze. Invece eccoci qui, a riempirci la bocca della tragedia della dissidenza. Quella che, scriveva Solzenicyn, veniva risolta in lager dove, rispetto a quelli nazisti, «per fare le camere a gas, ci mancava il gas». Dove il compagno Lenin mandava ad alloggiare tutti coloro che reputava «nemici della lotta di classe, anche in assenza di prove». Bastava il sospetto. La dissidenza all'interno del Patto di Varsavia, spianata dai carrarmati a Budapest e Praga, prima che - con coraggio - alcuni dei Paesi d'Oltrecortina firmassero nel '75 il Trattato di Helsinki per difendere la libertà di pensiero. La dissidenza che, quasi mezzo secolo dopo i processi-farsa a Sinyavskij e Daniel persiste nel mondo post-sovietico, alle latitudini in cui impera ancora la repressione. All'inizio del 2010, a Cuba, il dissidente anticastrista Orlando Zapata è morto dopo 85 giorni di sciopero della fame. In Uzbekistan, il poeta Jumaev è stato torturato ed è in carcere da anni per aver chiesto le dimissioni del presidente Karimov. Il Nobel per la Pace è stato assegnato all'espatriata iraniana Shirin Ebadi come alla oppositrice birmana Aung Sn Suu Kyi, agli arresti domiciliari da vent'anni. E "dissidenti", in senso ampio, sono stati certamente Nelson Mandela, Lech Walesa, lo stesso Dalai Lama. In Italia abbiamo mobilitato i pensatoi dell'intellighenzia rossa per alludere al "dissidente" Fini. Dimenticando che qui basta un niente e si finisce nel grottesco. Una biografia non autorizzata di Walter Veltroni raccontava di quando il giovane segretario della Fgci romana procedette ad alcune epurazioni dei militanti più rognosetti: concludendo il suo intervento con un frattocchiesco «se siamo il più grande partito comunista d'Occidente non è grazie alle vostre balle, ma alla nostra capacità di fare politica», decretò le espulsioni. Uno dei cacciati era Augusto Minzolini.