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Senza Stato e senza nazione Gli italiani solo «brava gente»

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«Lademocrazia presente non contenta più gli animi degli onesti. Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel Paese. Le grandi forze cedono di fronte a uno spopolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione». È lo specchio dell'Italia nell'editoriale non di un direttore di grande giornale degli anni 10, ma di un giovane intellettuale, tal Giuseppe Prezzolini, che cento anni fa, un anno prima del cinquantenario dell'Unità d'Italia scriveva su «La Voce» un articolo dal titolo «Che fare?». Medesima domanda che in modo poco sconsolato e molto duro si pone lo storico Emilio Gentile in «Né Stato né nazione, Italiani senza meta» (Laterza, pag. 109), libro in cui traccia un breve percorso dalla nascita allo sviluppo degli stati nazionali e spiega perché l'Italia è una non-nazione o, se vogliamo, una non-Italia. Un Paese che manca di coesione e di unità malgrado gran parte dei suoi abitanti creda fortemente nell'unità e un'altra parte consistente pensi che la nascita dello Stato unitario sia stato un errore. Insomma, il mondo in cui viviamo è diviso in Stati nazionali, l'ideologia più diffusa in tutti i continenti è il nazionalismo, nato con la modernità e finora sopravvissuto a tutte le ideologie, ovunque si è affermata la nazione come il principio supremo che legittima l'unità di una popolazione nel territorio di uno Stato indipendente e sovrano eppure, l'Italia va controcorrente, afflitta da una grave crisi di sfiducia nella propria esistenza. E mentre a Torino proseguono i preparativi per i festeggiamenti del primo secolo e mezzo dell'Unità e dopo che i «fratelli d'Italia» si vogliono ripudiare con il coro verdiano o, peggio ancora, con la gatta di Gino Paoli, e il tricolore si sostituisce con il fazzoletto verde, Gentile ribadisce: «Un popolo sottoposto a un continuo ripensamento della propria identità, finisce per perderla o per diventare schizofrenico». La nazione, affermava il francese Ernest Renan, è un plebiscito di tutti i giorni. «In Italia, nell'ultimo mezzo secolo, scrive il docente defeliciano de La Sapienza, le frequenti elezioni politiche sono state simili a un plebiscito di tutti i giorni. Ma quasi tutte hanno fomentato aspre divisioni fra gli italiani, perché sono state vissute come una scelta di regime in una sfida mortale fra il Bene e il Male». Gli italiani sono sempre, come lì definì D'Azeglio «i più pericolosi nemici dell'Italia unita». A nulla è bastato un secondo risorgimento attuato da Carlo Azeglio Ciampi dal 1999 e poi proseguito dal successore Giorgio Napolitano. L'Italia, scrive lo storico, è l'unico Paese con una forza di governo nata «col proposito di disunire» e l'analisi del successo politico della Lega Nord sembra una conseguenza del tutto naturale alla storia d'Italia. Non dimentichiamo che il nostro è il Paese dove, secondo i sondaggi, le migliori qualità dei cittadini, a loro detta, sono «l'arte di arrangiarsi, accompagnata dalla capacità di farla franca». Etichetta atavica quanto le divisioni nazionali che però Gentile inscrive in un'analisi storica e sociologica che non lascia scampo al grigio futuro dell'Italia. Se la nazione è il ricordo dei sacrifici compiuti, è lecito immaginare e sperare nel futuro. Un po' incerto ma non in direzione dell'oblio bensì di speranza contrariamente a quanto affermava Kafka, secondo il quale vi sarebbe stata «speranza infinita per tutti ma non per noi». Gentile in fondo è ottimista e conclude il suo concentrato di storia e attualità con una licenza storica: racconta di aver manzonianamente trovato un testo del 3111 sul fantomatico «Miracolo dello Stellone», e di qui racconta le sfarzose celebrazioni dei 150 anni previste per l'anno prossimo. Agli italiani più che la speranza serve un miracolo.

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