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Era un poeta, ma di quelli che non si limitano a immaginare le cose.

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Ungiorno inventò il voltapagine a pedali per pianisti, ma il brevetto andò perduto: anzi, si trasformò in una poltiglia cartacea nel bel mezzo di una tormenta sui Pirenei, mentre lui cercava di attraversare il confine con la Francia per sfuggire alla dittatura franchista. Il poeta si mise in salvo, ma vide sbriciolarsi tra le mani anche un altro prezioso documento, quello che a Barcellona gli era servito per registrare l'ideazione di un gioco vagamente ispirato al tennis da tavolo. Nel 1936 Alejandro Finisterre era un ragazzo che vagava di ospedale in ospedale, ferito anche lui nei bombardamenti di Madrid: la guerra civile spagnola. Vedeva tanti coetanei con le gambe amputate e si struggeva: se non possono più correre su un prato - pensava - che possano almeno divertirsi con dei giocatori sagomati infilati su stecche, servirà poco altro, una pallina, un campo di compensato. E poi si potrà riderci su se qualcuno perde, senza che un rivale che ha la faccia della tua terra venga a infilzarti le budella. Così commissionò a un falegname basco il prototipo del "futbolin": un terzo amico, un leader anarchico che commerciava gazzose incoraggiò Alejandro a non mollare l'idea. Ma sulla strada dell'esilio, quella bufera di montagna negò al poeta i diritti di paternità su quel gioco del calcio in miniatura che odorava di legno, piuttosto che di erba. Certo, la leggenda di Finisterre si incrocia con quelle di altri personaggi, meno suggestivi ma forse più pratici. Perché quando un'idea comincia a circolare, basta un soffio di vento e si posa nella testa di qualcun altro. Tra gli anni Venti e i Trenta il minifootball compare un po' in tutta Europa: nelle birrerie tedesche (grazie all'inventiva di Herr Broto Wachter), e in Francia, per la genialità di Monsieur Lucien Rosengart, operaio alla Citroen. Nel '36 i primi "cassoni" per giocare vengono anche sperimentati - ma non prodotti in serie - da un artigiano di Poggibonsi. Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, torna ovunque la voglia di baloccarsi, anche a scopo terapeutico: negli ospedali militari testano il calciobalilla come mezzo ludico per recuperare l'equilibrio psichico dei reduci. Finché compare all'orizzonte un marsigliese eccentrico, Marcel Zosso, che crea i primi veri tavoli moderni, con le stecche metalliche e i giocatorini di plastica. Poiché in questa storia c'è sempre un confine da varcare, eccolo in Piemonte, la patria italiana dello "sportfoot" moderno. Punta all'importazione su vasta scala (come, dall'altra parte dell'Atlantico, farà l'americano Patterson): Zosso ingaggia i cassamortari e i detenuti del carcere di Alessandria, e vince la sua partita imprenditoriale. Nel 1950 il calciobalilla (o biliardino, calcino, calcetto, il nome pretende le sue varianti semiufficiali) si diffonde per tutta la Penisola. Tanto che quattro anni dopo la Questura di Roma lo proibisce nella Capitale, perché le famiglie sono preoccupate: i figli non studiano, e passano le serate nei bar e nelle bische. Mezzo secolo dopo, nell'era dei videogiochi più sofisticati e dopo aver resistito anche all'assalto del Subbuteo, la mania non tramonta: giusto due giorni fa, a tentare di bandire il biliardino è stato il sindaco di un paesino del bergamasco: «Questi scalmanati fanno troppo chiasso, basta». Figurarsi. Perché il calciobalilla non è uno svago innocente, è molto più di un gioco, pretende la partecipazione fisica, con i muscoli che si tendono verso un risultato, la mobilitazione totale di fibre e nervi, e nessun rischio di un'allucinazione virtuale, tendenzialmente psicotica, come quando ti logori le dita e i neuroni con la Playstation o con la Wii. No, il calciobalilla è uno sport vero: devi allenare i polsi e le spalle, vigilare sulla corretta disposizione dei carichi sulle gambe. C'è un campionato mondiale (World series nella Repubblica Ceca a ottobre e finali a Nantes, in Francia, nel gennaio 2011). Due anni fa, a Pechino, il calcio con la stecca è entrato a fare parte delle delle discipline olimpiche dimostrative. In Italia sono più o meno ventimila gli iscritti alla Federazione: peccato che in campo internazionale siano penalizzati da regole più severe che altrove. Se infatti è universalmente vietata la "girella" (o "scarrucolata", da ragazzini ci scappava sempre il litigio), da noi non sono concessi i "ganci", i passaggi in linea, le "virgole", e tutto un repertorio di furbate che all'estero consente agli avversari dei nostri nazionali di lasciarci con un palmo di naso. Tanto che un'ex campionessa iridata di origini italiane, Samantha Di Paolo, ha scelto di competere per la Svizzera: un'oriunda al contrario. E nelle classifiche degli assi (in singolo e in doppio) i nostri soccombono di fronte a belgi, americani, lituani. Eppure il calciobalilla è uno dei gadget senza tempo su cui affonda mollemente l'immaginario collettivo di quattro o cinque generazioni di italiani: tutti, indistintamente, protesi a cercare il trucco più efficace per giocare la partita infinita, meglio se dall'alba al tramonto, sulla spiaggia o all'oratorio. Chissà se la moneta da un euro è utile quanto le vecchie cento lire per bloccare (in senso orizzontale) il ferro della gettoniera e lasciare aperta la botola in cui ricadono le palline. Che in alternativa (c'è sempre un barista o un prete in agguato) si possono recuperare infilando le mani dietro la buca della porta dopo il goal. O chiudendo la voragine dietro il portiere con dei sacchetti. Insomma studiandole tutte, perché il sogno della vittoria, rossi contro blu, non si infranga mai. Almeno quello, finché ci resta un soldo in tasca.

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