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Stregati dal Tevere

Fiume Tevere

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Trastevere è l'unico quartiere di Roma che ha un rapporto stretto col fiume. Lo si capisce solo vivendoci; perfino quando abitavo sull'altra sponda, quella di Campo de' Fiori, il fiume non esisteva per me come non esiste per i romani in genere. È lontano, ininfluente, dimenticato. Ora lo so, ora che vivo nel quartiere, il fiume appartiene a Trastevere, tutt'uno con esso, tutt'uno con un'idea antica della città. È necessario innamorarsi profondamente di Roma per ricordarsi del Tevere, per riconoscerlo come il sangue nelle sue vene. Bisogna sapere di quando la città degradava verso l'acqua e si nutriva dei suoi pesci e il fiume non era stato ancora relegato nel fondo del canyon costituito dai muraglioni, ma erano tempi in cui esplodeva facilmente invadendo le case, distruggendo animali, oggetti, persone. Quando torno a casa le sere estive, dentro il Ponentino, il «venterello salato» di Pascarella, attraversando ponte Sisto – o ponte Garibaldi o ponte Fabricio – con il sinuoso abbraccio delle anse dell'acqua intorno, alzo gli occhi ogni volta su una bellezza diversa, clamorosa o discreta. Prima amavo soltanto frammenti sparsi di questa città, ora ne ho conosciuto il cuore e tutto il resto si è risistemato in un insieme coerente. Intanto il Tevere è davvero biondo, non è una leggenda. «Così abbiamo visto il Tevere dorato...» scriveva Orazio. Io l'ho scoperto un giorno di primavera del 2004. Quando un'amica, Adriana Polveroni, che doveva fare i sopralluoghi per un documentario televisivo, mi ha invitata a una gita sul fiume a bordo d'un barcone turistico. «Non sapevo che si potesse vedere Roma dal fiume a meno di non essere un canoista che solca la corrente dritto come un fuso, e tu rabbrividisci. E se cade nell'acqua? Uno ha in mente il fatto che il Tevere è inquinato, se ci metti un dito pensi che si contamini all'istante, se poi ci cadi dentro non hai possibilità di uscirne vivo, tifo fulminante o chissà che altro», questo le avevo detto al telefono. Questo pensano i romani. Questo pensavo anch'io che a Roma vivo da quando facevo la seconda elementare. Sono inesperta del Tevere. So quello che sanno tutti: batteri, nitrati, bicarbonati, ammoniaca. E mulinelli. Li vedi a occhio nudo i mulinelli, anche solo affacciandoti da un ponte qualsiasi. E così Adriana m'invitò sul barcone e io accettai. L'aria era tiepida, le acque tranquille. M'imbarcai al ponte Duca d'Aosta, all'altezza del Foro Italico, con qualche turista straniero e la macchina fotografica. C'era anche chi usava il battello per scendere dopo una sola fermata, ma si trattava di un amico dell'equipaggio, in realtà prendeva un passaggio per risparmiarsi il traffico sul lungotevere. «Dunque il fiume di Roma è davvero biondo, fangosamente biondo» commentavo. «Ha un colore morbido» diceva Adriana. «Un colore screziato di bagliori dorati, qui e là virato al verde». Molti alberi sorgono dall'acqua, mentre quelli in alto fanno pendere dalla strada fronde oscillanti giù per i muraglioni: tendono all'abbraccio, cercano l'intreccio dei rami gli uni con gli altri, un incontro, come a voler inghiottire l'intervento umano che ha creato quel muro di separazione, cancellando l'affondo diretto delle case nel fiume dove adesso guardavamo passare papere e canottieri. «Forse i depuratori fanno il loro mestiere, non deve essere proprio mortale il Tevere» rifletteva ad alta voce Adriana. Notammo anche i pescatori, seduti tranquilli con le loro canne e il senso del tempo infinito come tutti i pescatori del mondo. Cinque anni dopo Susanna Tamaro mi ha raccontato, mentre facevamo colazione in un bar di piazza San Cosimato, di un vicino di casa trasteverino che teneva le ciriole – così si chiamano i pesci che si pescano nel Tevere – a spurgare nella vasca da bagno, prima di cucinarsele. Lo ha anche scritto in un libro.   Una volta nel Tevere c'erano storioni, cefali, spigole, non solo ciriole, che sono giovani anguille, dette anche fiumarole o chiavicarole. E c'è un verbo bellissimo del dialetto romanesco che oggi non si usa più, “ciriolare”. Vuol dire procedere sinuosi come un'anguilla, destreggiarsi nella vita, cavarsela insomma. Mentre la ciriola, ormai, è per tutti uno sfilatino, un panino tipicamente romano, che ha la forma di un pesce dalla grande pancia. «A ben guardare è un'enorme ciriola il Tevere stesso, con le sue anse pronunciate» disse Adriana quel giorno sul barcone. È vero, mica come il Tamigi che viene giù dritto sparato, o la Senna, maestosa e pomposa, per non parlare del Reno e del Danubio, fiumi larghi e solenni. «Il Tevere è sinuoso, femminile, tutto mammelloni che si insinuano nella città ad allattarla». Così vuole la leggenda dei due fratelli, Romolo e Remo, allattati dalla Lupa, e la Lupa era Roma e Rumon era il suo nume, Rumon che era il Tevere prima di chiamarsi Tiber. Così parla la storia dei nomi se si risale indietro la loro corrente. «Ruma, la città del fiume» la chiamavano gli etruschi, poi la u si è chiusa graficamente in una o lunga, che si pronuncia stretta – così fanno le u nel corso del tempo. Ruma significava mammella. «Guarda il mammellone di fronte all'Isola Tiberina, per esempio» indicava Adriana mostrandomi un punto sulla mappa appesa dentro al battello. Col dito andava ridisegnando la forma tondeggiante dell'ansa, la curva a S del tratto di fiume che stavamo percorrendo. Proprio lì c'erano stati i primissimi insediamenti. E noi ci stavamo arrivando. «Rumina (Romina) era la dea dei poppanti» dissi, reminiscenza scolastica. La barca intanto arrivò all'ultima stazione, la Calata dell'Anguillara, davanti all'Isola Tiberina, quindi girò su se stessa per tornare indietro. Si ripartiva. «È diverso vedere Roma dal fiume, ti cambia tutta la prospettiva, sembra un'altra città». (...). I romani vanno su e giù per i lungotevere, ma non scendono quasi mai le ripide scale che portano agli argini. Vanno in macchina in un traffico infernale, non passeggiano sui lungofiume con quella calma consuetudine che fa venire voglia di scendere verso l'acqua. Così ignorano il fiume, lo temono, lo lasciano a vagabondi, drogati, clochard. Se vanno nei ristoranti sulle chiatte galleggianti, il fiume nemmeno lo guardano, il fiume che era la vita di Roma. L'avrei capito in seguito. Solo i trasteverini lo considerano ancora cosa loro, i trasteverini costretti a passare i ponti «per andare in città», i trasteverini che l'odore salmastro lo sentono nell'aria fino in casa, così come sentono e vedono i gabbiani, che riempiono i vicoli silenziosi di richiami. Trastevere è il cuore di Roma, perché è la parte antica che non cede, che resta stretta all'anima dell'agglomerato originario, popolano, superstizioso, paesano, bigotto.

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