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Rolling Stones, mito della libertà

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Mike Jagger

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I Rolling Stones sono il rock. Da cinquant'anni. Loro lo sanno e noi pure. Perciò si possono permettere di festeggiare, tra due anni, il mezzo secolo di attività, tra alti e bassi, pause e vigorosi ritorni, terrificanti depressioni e spettacolari apparizioni. Nessuno si è meravigliato quando Mick Jagger ha annunciato il tour mondiale che durerà due anni, culminando nel 2012, anno di nascita del gruppo britannico, per marcare una storia che non si esaurirà con l'addio finale quando Jagger avrà superato i sessantasette anni, Richard la stessa età, Wood i sessantatrè e Watts avrà spento settanta candeline. Ma ci si può scommettere, i Rolling non scompariranno, perché i miti non vanno in pensione. Li vedremo saltare su palchi megagalattici, animare le scene ed eccitare la fantasia di chi li ha visti nascere come di chi ne raccolto i frutti seminati nel mondo del rock, figli e nipoti di coloro che amavano, trasgredivano, si illudevano, protestavano ascoltando Satisfaction e Jumpin' Jack Flash, Sympathy for the devil e Brown Sugar. Con il rimpianto di un'epoca che vivrà nella colonna sonora di una modernità, comunque valutabile, nella quale siamo indiscutibilmente immersi. I Rolling Stones come Jimi Hendrix, Janis Joplin, i Led Zeppelin, Frank Zappa, gli Who, i Cream sono i protagonisti del nostro sogno innocente, cominciato oltre quarant'anni fa, che ci tiene compagnia, magari ascoltando Bach o Mozart, o immergendoci nell'universalità jazzistica di Miles Davis e di Keith Jarrett: senza quei ragazzi inglesi che facevano da contrappunto diabolico agli angelici Beatles, il nostro immaginario non sarebbe stato quello che è stato, e non avremmo praticato i vizi innocui di rivoluzionari senza rivoluzione, come quei ragazzi di Woodstock che giusto quarantuno anni fa si ritrovarono in una sperduta contea sulla costa orientale americana a ridere in faccia ad un mondo che volevano semplicemente ed ingenuamente più umano e trovarono nelle distorsioni prodotte dalla Fender Stratocaster bianca di Hendrix i motivi della loro rivolta, le ragioni di una comunità che sapevano effimera, ma che nessuno gli impediva di credere eterna. Nel cuore e nella testa avevano, ben oltre i confini di Woodstock, anche la voce di Jagger e le note di Brian Jones, morto prematuramente, di Richard ed il martellante sound batteristico di Watts. Era il 1962, faceva caldo quell'estate a Londra. Il 12 luglio sei ragazzi dal nome curioso di "Rollin' Stones", ispirato ad un blues di Muddy Waters, si presentano sul palco del Marquee, tempio del rock londinese, per far ascoltare la loro musica "sporca e cattiva" ad un piccolo pubblico di adoranti dei grooves del Mississipi. Fu il delirio quando attaccarono And gonna dance like in asshole, che avevano provato per un mese intero e divenne poi il loro primo cavallo di battaglia. Avevano intorno ai vent'anni, sconosciuti, diabolici, affascinanti ed antipatici. Si chiamavano Mick Jagger (voce solista), Keith Richard e Brian Jones (chitarre) Dick Taylor (basso, poi sostituito da Bill Wyman ritiratosi poi nel 1993), Ian Stuart (piano), Mick Avory (batteria). Poco dopo Watt si mette dietro i tamburi e Stuart va a cercare fortuna altrove. Quel giorno nacque una leggenda che avrebbe fruttificato nel mondo pop, facendo convivere rock, blues, jazz, sperimentazioni elettroniche nell'indefinibile sound di un gruppo senza padri perché ne aveva molti. Brian Jones sapeva suonare quasi tutti gli strumenti, al punto di utilizzarne uno medievale, la "dulcinea", scandalizzando i puristi del rock, ma affascinando quanti cercavano in tutte le forme di trasgressioni una loro possibile visione del mondo. Quel che ai Beatles non riusciva, tanto era scontato il repertorio con cui si contrapponevano da Liverpool ai londinesi perfino troppo snob per i loro gusti provinciali. Lennon e compagni, in particolare Harrison, cominciarono amati dalla "setta" dei maniaci dei Rolling soltanto quando scoprirono l'India e le nuove sonorità che attinsero dal magico incantatore del sitar Ravi Shankar. Fatto sta, e al netto delle differenze tra i due gruppi, qualche anno dopo lo sbarco nell'Europa continentale dei Rolling Stones, noi più pretenziosi di quelli di bocca buona, cantavamo, innamorati, Lady Jane e la trovavamo più sentimentale ed erotizzante di Girl; consumavamo il giradischi mettendo su la psichedelica Mother's Little Helper; e Satisfacion diventò la nostra colonna sonora insieme con Electic Lady Land e Voodo Chile di Hendrix. Senza questa roba che dava allo stomaco la stessa sensazione che si ha dopo aver ingurgitato due Manatthan ed un Martini prima del tramonto, non ci sarebbe stato il rock dei Clapton, dei Plant, dei Baker; neppure l'heavvy metal che la mia generazione, piuttosto esigente, non è mai riuscita ad amare. Soprattutto avevamo la sensazione ascoltando Jagger e compagni che la nostra epoca sarebbe stata diversa insieme con le loro canzoni. Non so dire se migliore o peggiore, ma la musica non è indifferente ai costumi dei popoli e all'evoluzione della stessa libertà che a quel tempo immaginavamo assoluta e senza limiti, proprio come promettevano i Rolling Stones conducendoci, secondo qualcuno, agl'inferi: posso assicurare che mai posto per aveva meno di vent'anni agli inizi dei Settanta è stato più confortevole. Curioso - ma non tanto poi - che sia i progressisti-comunisti quanto i conservatori-reazionari non abbiano mai amato i Rolling Stones. Fuori dagli schemi ci si sta con difficoltà. Ma con quanta gioia forse lo ricordano quei vecchi ragazzi che con l'anziana band festeggeranno nel 2012 la loro insignificante gloria di figli di una modernità che spesso li ha traditi. Con Statisfacion, beninteso.

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