Le ferie obbligatorie
«Levacanze danno un senso di morte». Non è una mia opinione, ma quel che mormorava l'allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, il Maestro, mentre ci trovavamo su un elicottero militare, in pieno agosto, partiti da Roma e diretti verso una località balneare, dove era defunto un importante uomo politico. All'arrivo ebbe parole di profondo cordoglio e volle citare Benedetto Croce: "Fa che la morte non ti colga in un momento qualsiasi d'interrompimento del lavoro". Quando fummo soli gli feci osservare che il trapassato era in vacanza. "Appunto", mi rispose. Ero un infante quando mi trovai a lavorare con il Maestro, ed egli m'insegnò che il lavoro non si ferma mai. Neanche a Ferragosto. Lo presi in parola, in modo talora forsennato, al punto che un giorno, a Palazzo Chigi, in uno di quei momenti d'affetto che addolcivano le soventi sfuriate, mi fece un complimento che, data la persona, era quasi commovente: per te faremo mettere, in quest'ufficio, un letto, come per Ferruccio Parri. Il mondo non andava in vacanza, la politica nemmeno, il pensiero neanche, perché mai saremmo dovuti andare in vacanza noi? E sebbene si deve stare bene attenti a non cadere nella nostalgia, solitamente sintomo di rincitrullimento senile, devo confessare che l'estate politica di un tempo mi sembra più dignitosa di quella attuale. Giulio Andreotti andava dalle suore, in montagna. Si faceva fotografare con il cardigan blu e un libro sotto al braccio. Enrico Berlinguer dichiarava di passare i giorni di riposo leggendo i Grundrisse di Karl Marx (e noi a prendere il librone, per guatarne le pagine e cercare di cogliere quale arcano pensiero andasse a pescarci). Bettino Craxi sosteneva che meglio di tutti era Pierre-Joseph Proudhon (e noi a chiederci: chi è?). Ugo La Malfa non aveva bisogno di far sapere cosa aveva intenzione di leggere, ma passeggiava e preparava quel che avrebbe detto. Non si organizzavano le feste danzanti, ma i convegni culturali, dietro ai quali si nascondeva la riorganizzazione delle correnti democristiane in vista della ripresa autunnale. Era un altro mondo. Forse ipocrita, può darsi. Anzi: certamente. Ma l'idea di trovare un governante danzante o un capo partito circondato dalle "sue" donne, no, non s'era affermata, non stava bene. L'idea che uomini carichi di responsabilità e pensieri finissero sulle navi dei ricchi o a fare il trenino in qualche villaggio all'estero, non era contemplata. Ed era meglio così. Non so se avete presenti le foto di Aldo Moro al mare, quasi in doppiopetto. Forse fanno sorridere, ma a me piacciono. In una lo si vede ritratto con la famiglia. Figuratevi se era pensabile cambiarla da una stagione all'altra, talché, con il passare degli anni, si portano al mare non i nipotini, ma i figli delle nuove unioni. Non credo proprio d'esser bigotto, anzi, sono decisamente laico, con qualche venatura di rispettoso anticlericalismo, ma l'idea che la cosa pubblica finisca nelle mani di chi non ha le idee chiare neanche rispetto ai propri affetti, ecco, credo abbiano ragione gli anglosassoni, a considerarla con sospetto. Le vacanze erano un rito collettivo perché quella era una società ancora pienamente industriale. La chiusura dei cancelli della Fiat segnava un momento di passaggio, l'avvio dell'"esodo", la loro riapertura, poi, la fine dell'estate. Anche in Sicilia, lo ricordo bene, si andava meno al mare, pur essendoci un sole che spacca le pietre, perché "le vacanze sono finite". Le città si svuotavano, come ora non accade. Siamo in tanti a trovarci in città, perché la nostra è divenuta una società post industriale (fortunatamente), in cui la gran parte del prodotto interno lordo è il frutto di lavori che non si fanno in fabbrica, alla catena di montaggio, con un motore che agita la vita di tutti gli addetti. Eppure di quel passato conserviamo alcuni istituti, sempre più anacronistici, come le vacanze scolastiche, troppo lunghe, come le vacanze della giustizia, che cominciano oggi e terminano il 15 settembre, con un calendario dissennato e arcaico, buono, forse, per un mondo agricolo-pastorale, ma incompatibile con quello odierno. Eppure vanno, i nostri magistrati, magari a far compagnia agli scolari, nel mentre il resto del mondo continua a lavorare. "Tutti al mare - cantava Gabriella Ferri - a mostrar le chiappe chiare". Il rito della spiaggia, per quanto possa sembrare strano, per quanto suoni pazzesco ai più giovani, non è affatto parte della nostra storia lontana. Potremmo attribuirne la nascita a Benito Mussolini, che istituì le colonie estive e portò i bimbi al mare. Del resto, a pensarci bene, solo la società industriale ha portato alle vacanze di massa, perché prima solo i ricchi andavano in villeggiatura, dato che i lavoratori della terra non hanno un solo giorno di pausa. Mai. Da adolescente palermitano scoprii che occorrevano due condizioni, per avere il villino, andare in barca, viaggiare all'estero e vestire di stracci: essere ricchi e di sinistra. Per carità, viva la società dei consumi, viva la ricchezza, viva i viaggi, viva le vacanze. Ma l'etica del lavoro, contadino e ininterrotto, aveva qualche cosa di profondamente buono, che è bene coltivare. Anche per non cadere nel conformismo beota che un film di Marcello Cesena (Mari del Sud) ha splendidamente descritto, al punto che chi non parte per i tropici debba sentirsi in colpa, sminuito, svantaggiato. La vacanza come un obbligo, il viaggio come un dovere. I dati del credito al consumo segnalano che una fetta significativa di quei viaggi è comperata a rate. E non è normale, perché confonde il confine fra essenziale e voluttuario. Ciascuno di noi ha una pila di libri che attendo d'essere letti. Di pensieri che aspettano di prendere corpo. Di affetti che non amano la fretta. Si può ben passare attraverso l'estate senza avere indossato la bandana, senza buttarsi dove i vip sono dei "veramente inutili personaggi", senza concorrere al "cafonal" interclassista. Se la classe dirigente italiana, o, meglio, se coloro che occupano il posto di quella che fu la classe dirigente non riescono a dare un esempio accettabile, non è il caso d'imitarli, ma, semmai, di dare (fosse anche solo a sé stessi) un esempio diverso.