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La libertà fa rima con civiltà nella «città volontaria»

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Lostorico inglese Paul B. Johnson ci ha regalato racconti così sublimi della storia del mondo che di fronte al suo talento non resta che inchinarsi. Comunque. Un'ennesima perla è la prefazione illuminante che appone al bel libro, ora tradotto anche in italiano, «La città volontaria», un testo che l'Independent Institute di Oakland, in California, ha pubblicato nel 2002 per la cura da David T. Beito, Peter Gordon e Alexander Tabarrok (trad. it., Rubbettino-Leonardo Facco, Soveria Mannelli-Treviglio, pp.412, euro 16,00), e corredato di una seconda prefazione, appositamente vergata per l'edizione italiana (che esce nella collana Policy, promossa dall'Istituto Bruno Leoni di Torino), di Vito Tanzi. Il libro è una vera e propria liberazione. Da che? Dalla ridda di obiezioni senza fondamento né storia con cui un po' tutti rispondono se dici che senza lo Stato si sta meglio. Il volume è una enciclopedia illustrativa del più puro criterio della sussidiarietà, che poi è la resa filosofica dell'adagio "chi fa da sé, fa per tre". L'uomo, la creatività naturale che lo contraddistingue, la libertà che è il primo dei sui diritti, la responsabilità che è il supremo dei suoi doveri (morali, morali), la possibilità di associarsi che è la sua vocazione terrena e lo spirito d'intrapresa che di tutto ciò è la missione storica sa bene cercarsi maestri culturali e spirituali per imparare la felicità: quanto gli resta poi da fare è rimboccarsi le maniche per abitarla. Quella della polis a misura di uomo e il più possibile immagine della Gerusalemme celeste è un orizzonte di costruzione concreto, infatti, non una utopia. I saggi raccolti ne «La città volontaria» raccontano così la lunga, ampia e ricca la storia dell'uomo "quando lo Stato non c'era" e i servizi fondamentali erano assicurati benone dai privati. Le comunità politiche umane hanno infatti saputo persino amministrarsi da sé la giustizia, come quando la lex mercatoria prevedeva un reciproco affidamento fra strutture private che assicurava certezza del diritto e rapidità d'intervento. Pure la difesa dal crimine è stata gestita a lungo da apposite associazioni volontarie fra cittadini che, temendo davvero, per interesse privato, i reati contro proprietà e persona, si sono rese intelligentemente efficaci nell'intervento di "polizia". L'assistenza sociale ai poveri e ai bisognosi è stata proficuamente poi garantita da societates di mutuo soccorso dove vigeva l'obbligo di assistere i soci quando bisognosi giacché proprio quegli stessi soci erano fonte d'interesse imprescindibile, e di reddito, quando in stato di salute imprenditoriale. Osserva Tanzi: "Analoghe associazioni o confraternite avevano svolto un ruolo importante in Italia: nel sedicesimo secolo addirittura un italiano su quattro apparteneva a una di queste associazioni. Le confraternite fornivano assistenza ai propri membri in caso di "vecchiaia, malattia o morte". Anche in questo caso l'insorgere del welfare state ha prodotto una repentina diminuzione del numero e dell'importanza di tali associazioni. In definitiva, l'assistenza prestata dallo Stato non ha rappresentato un aumento netto delle tutele preesistenti". E poi la Sanità, dove senza Stato le istituzioni private hanno garantito i paterfamilias nella malattia, persino fondando ospedali e assoldando medici professionisti. O le scuole, private e a scopo di lucro, che in regime di concorrenza erano spinte a tenere bassi i prezzi e a gareggiare in offerta di qualità. È la storia dell'Occidente prima della sua involuzione, a noi oggi sembra fantascienza. Ricorda Johnson: "Con la disgregazione dell'Impero romano d'Occidente, il successivo Medio Evo vide l'assunzione delle funzioni statali da parte di potenti individui privati o cittadelle fortificate". Avendo dimenticato questa storia nobile, paghiamo tasse per servizi scadenti e inutili, giustamente mugugnamo, ma tutto resta così.

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