Per le antiche scale
Quando,qualche anno fa, fu ridisegnata piazza del Parlamento, Paolo Portoghesi in un editoriale su questo giornale bocciò senza mezzi termini l'operazione. Soprattutto giudicò un obbrobrio l'«amputazione» della scala ellittica che introduce al Palazzo della Camera dei Deputati, l'edificio eclettico disegnato da Ernesto Basile. Per aumentare il clivo della piazza tre gradini erano stati inghiottiti dal nuovo pavimento. E tutta la scalinata ne risulta soffocata, perché ha perso slancio. Un dettaglio, diranno i più. E invece no, perché l'ascesa al portone principale della sede del Parlamento ha un significato e una funzione: portare ai «piani alti» della politica. Del resto le scale sono importanti per Roma, quasi una costola della caput mundi. Elementare, Watson, dirà chi elenca i sette colli e dunque la sfilza di salite e discese capitoline. Ma gradini, cordonate, rampe hanno acceso da sempre la fantasia degli architetti, il vanto dei nobili, il lustro dei Papi. Si sono fatte lì parecchia storia e parecchie chiacchiere. Ecco i 124 scalini dell'Ara Coeli. Di «sguincio» come sono, fanno venire il fiatone solo a guardarli. Racconta nel suo bel libro Giuliano Malizia, («Le scalinate di Roma, Rendina Editori) che Lorenzo di Simone di Andreozzo, il marmoraro del rione Colonna autore della costruzione, cavò i marmi dal tempio Quirino. Era l'Anno di Grazia 1348, pieno Medioevo dunque. E la spoliazione dei monumenti antichi un'abitudine. Al netto del materiale l'Andreozzo si fece pagare 5 mila fiorini, reperiti tra le elemosine dei fedeli. Che, penitenti, salivano in ginocchio fino alla chiesa e al convento. Al contrario, non mostrò un briciolo di devozione il fattorino di telegrammi che nel 1906 ne discese lanciato su una bici. E neppure i Savoia si fecero scrupoli. Per realizzare il monumento a Vittorio Emanuele spostarono la scala, smontandola a pezzo a pezzo e ricomponendola più in là. Dov'è ora, soffocata dalla mole del Vittoriano. Farsi in picchiata qualche nobile scalea è comunque considerato il massimo del sollazzo. Un ciclista ai primi del Novecento si calò da Trinità de' Monti. Non basta. Sulla scala rococò di Alessandro Specchi slittavano con la tavola i monelli. D'agosto poi, nei ripiani, si facevano «balli d'uomini e donne, che vanno abbigliate con cappelletti di paglia, e vi è il suono delli strumenti del cardinale Acquaviva», racconta nei suoi diari Francesco Valesio. Piazza di Spagna, Ara Coeli, la cordonata del Campidoglio. E poi le scale interne, trionfi di colonne e balaustre, come nei palazzi Braschi, Brancaccio, Barberini, Borghese. Sono le rampe più viste, le più visitate. La Scala Santa, al Laterano, è addirittura consumata dai ginocchi dei fedeli. Si dice l'abbia portata da Gerusalemmme Sant'Elena, madre di Costantino. Era nel palazzo pretorio di Ponzio Pilato. Tre macchie su altrettanti gradini verrebbero dal sangue di Gesù. Chi arranca fino in cima, si china e le bacia. Altre gradinate raccontano dei patiti del Grand Tour. Quella che dal Lungotevere scende a via dell'Orso e via di Monte Brianzo la calpestarono Montaigne, Goethe, Rabelais, ospiti dell'albergo attiguo. La cordonata di via dei Capocci, tra Monti e la Suburra, era l'anticamera del palazzo dei Ciancaleoni, la famiglia patrizia che diede un combattente alla disfida di Barletta. Al Gianicolo le scale rimbombarono di spari di fucili, conobbero gli eroi giovinetti della Repubblica Romana. Una, in via Saffi, è intitolata a a Righetto, il popolano che morì gridando «Viva l'Italia» contro i francesi. Tra via Dandolo e via Glorioso la scalea intitolata al «Tamburino». Era Domenico Subiaco, veniva da Ripi, vicino Frosinone, aveva 16 anni. Troppo piccolo per le armi. Gli diedero un tamburo, per incitare le truppe. Lo fece urlando il nome di Roma in faccia ai militari di Oudinot. Quando vide morire il compagno accanto, gli prese il fucile e buttò via il tamburo. I nemici gli spararono in faccia. Ma spirò contento. Non di eroi romantici, ma di nottambuli intriganti e gourmet racconta la Rampa Mignanelli. I cento gradini che costeggiano il palazzo della Propaganda Fide, nell'Ottocento sede della Banca Romana, hanno portato per trent'anni a casa di Maria Angiolillo, regina dei salotti romani. Serate rigorosamente trasversali per politici, giornalisti, intellettuali, grand commis. Ambitissime dunque le cene a casa della signora. Solo un fastidio: salire e poi scendere, a notte fonda, magari sotto la pioggia, i cento scalini. Un martirio per le signore sui tacchi alti. Accorrevano premurosi Roger, il muscoloso maggiordomo orientale di donna Maria, e un maresciallo in pensione, che lei ingaggiava quando apriva le sue sale. Mai salita di Roma è stata più affollata. Adesso che lady Angiolillo non c'è più, restano gli avventori di un wine bar più in basso. Che, certo, non fanno storia, ma solo chiasso.