Le streghe son tornate
Lestreghe son tornate? Sembrerebbe proprio di sì: almeno a gettare uno sguardo agli ultimi mesi, che hanno visto sorgere associazioni, convocare convegni, pubblicare libri e articoli a iosa sulla condizione femminile. Lo scopo è sempre lo stesso: deprecare la situazione delle donne italiane, lamentare il loro persistente svantaggio lavorativo, politico e sociale, condannare il trattamento loro riservato dai mezzi di comunicazione, protestare per i vincoli legislativi sui temi riproduttivi - dalla RU486 alla fecondazione assistita - Soprattutto, stigmatizzare il comportamento del maschio italico: che si tratti di politici con il debole per le veline, di manager usurpatori degli agognati posti dirigenziali, o di padri di famiglia poco inclini alla cura della prole. E tra un documentario sul corpo delle donne e un osservatorio sui media, tra una petizione contro Berlusconi e un progetto di legge per il congedo di paternità, ecco ricomparire il femminismo: riferimento obbligato tanto per chi si limita a infilare la citazione, che fa sempre chic e non impegna, quanto per chi ancora sogna la rivoluzione mancata. «Nostalgia canaglia», l'ha chiamata Serena Danna sul Sole24Ore, evidenziando il divario tra le recriminazioni delle «soldatesse degli anni '70» e la realtà delle donne italiane, lontane dalle veline almeno quanto dalle loro fustigatrici. Ma le nuove streghe sono soprattutto lontane dal femminismo. Non quello stereotipato, fatto di reggiseni bruciati e comunelle di lesbiche, ma quello vero, storico, multiforme e complesso come la sua ombra luogocomunista non è mai riuscita ad essere. Non è esistito un solo femminismo: il movimento delle donne si è progressivamente diviso, almeno, tra un ramo che ha scelto come obiettivo la parità tra i sessi e un altro che, al contrario, ha pensato e agito in nome dell'insopprimibile differenza tra uomini e donne. Meno «corazzato» teoricamente, ma più influente pubblicamente, il primo ha ben presto prevalso sul secondo non solo quanto a penetrazione nel dibattito, ma anche e soprattutto quanto a incisività sull'iniziativa legislativa. Chi sfogliasse il libretto «Non credere di avere dei diritti», scritto dalle femministe «storiche» della Libreria delle Donne di Milano, scoprirebbe ad esempio che all'epoca la posizione dei movimenti femminili nei confronti di leggi come quella sull'aborto, o sulla violenza sessuale, oggi spacciate come baluardi intoccabili dei diritti femminili, è stata tutt'altro che compatta. Le neofemministe accusano le epigone di fallimento, di utopia, di marginalità: vorrebbero addossare loro la colpa delle veline, del soffitto di cristallo e della penuria di asili nido. Dimenticando che ad affermarsi fu una sola delle anime del femminismo, quella emancipazionista, divenuta ben presto mainstream anche grazie al supporto di istanze del tutto estranee a quelle femminili. Come l'efficientismo: che ha cavalcato le rivendicazioni professionali delle donne per arruolarle in massa in un'organizzazione del lavoro ingessata e verticista, senza spazio per la maternità, per la flessibilità, per la creatività. Le veline in fondo non sono che l'altra faccia delle «uome», le manager carrieriste che non esitano a calpestare le proprie simili e a sacrificare famiglia e vita privata, pur di esser valutate quanto e più dei colleghi maschi; senza riflettere se i criteri di questa valutazione siano discutibili, o se raggiungere una posizione di responsabilità sia l'unico modo di realizzarsi. Ma mentre le neofemministe rincorrono asili nido, quote rosa e posizioni nei CDA le femministe, quelle vere della Libreria milanese, pubblicano un manifesto che intitolano «Immagina che il lavoro», in cui chiedono un lavoro più amico della vita, ribadiscono il loro «doppio sì» alla maternità e al lavoro e spiegano che «la parità fa acqua da tutte le parti». La parità, non il femminismo, ha fallito: la rincorsa di un'impossibile eguaglianza ha prodotto la forzata equiparazione di potenzialità, desideri e tempi femminili a quelli maschili; ha sancito l'obliterazione della maternità, ridotta a mero diritto riproduttivo; ha determinato la svalutazione della cura dei figli e della famiglia, considerata un fardello da rimbalzare invece che un piacere da custodire. A vincere sono state veline e uome, che realizzano in modi diversi lo stesso adeguamento a modelli maschili. La responsabilità dell'odierna condizione femminile va cercata qui: se a prevalere non fosse stata la ricerca ostinata di questo adeguamento, forse la situazione oggi sarebbe diversa. Dunque, se davvero volessero dire basta, le donne dovrebbero smettere di lamentarsi, piantarla di rincorrere gli uomini; e ripartire dalla loro pluralità e ricchezza, dal loro desiderio di maternità - non semplicemente di procreazione - dalla loro creatività e energia soffocate in un modello lavorativo rigido e semplificatorio. La notizia è che le donne italiane tutto questo lo stanno già facendo: ma questo le nuove streghe, per fortuna, non lo sanno.