Se la libera impresa gestisce le strade, i parchi e le dighe

Nonc'è nulla da fare: l'idea che "pubblico" alias buono sia ciò che fa lo Stato e che "privato" sia il suo contrario, vale a dire tutto quanto è cattivo e ingiusto, spadroneggio per il mondo e si fa beffe della realtà. Sul fatto che un servizio di utilità pubblica possa essere benissimo, proficuamente ed efficacemente garantito da un soggetto privato esiste del resto una letteratura (cioè una riprova documentale scientifica e descrittiva) enorme che però continua ancora purtroppo a circolare come il samizdat. Per molti versi tutto parte dal libro, originariamente pubblicato nel 1994, di Fred E. Foldvary, «Beni pubblici e comunità private. Come il mercato può gestire i servizi pubblici», ora opportunamente pubblicato a Torino con prefazione di Stefano Moroni da IBL Libri (pp. 388, euro 24,00). Classe 1946, lettore di Economia all'Università californiana di Santa Clara (un ateneo gesuita, il più antico di tutto il vecchio West) e Research Fellow all'Independent Institute di Oakland, in California, Foldvary è un tipo particolare di libertarian che afferisce direttamente al "geoanarchismo": ovvero l'idea, figlia del filosofo americano Henry George (1839-1897), secondo cui tutta la terra è un bene comune a cui hanno eguale diritto tutti gl'individui tale per cui se qualcuno reclama proprietà di una sua parte è tenuto a pagar pigione. Il suo libro tratta delle "comunità contrattuali". In esse le persone che inurbano un determinato territorio avendo la proprietà delle unità immobiliari che compongono detta comunità "artificiale" si accordano per una norma di condotta e di uso (una "costituzione"), e versano contribuiti per acquisire servizi collettivi forniti su aree di proprietà comune. Ogni abitante di quelle comunità è così proprietario unico dei propri beni immobili e assieme copropietario di edifici e di strutture di uso comune: strade, parcheggi, piazze, centri sportivi, parchi, e così via, la gestione venendo affidata a un comitato appositamente scelto per sé dai proprietari/coprietetari. In questo modo i servizi erogati sono dunque pubblici (a disposizione di tutti i contraenti il patto comunitario) ma privati (pagati volontariamente dai singoli in ragione di una regola comune che tutti hanno liberamente sottoscritto). Inoltre, le rendite provenienti dall'erogazione dei servizi vengono sfruttate al meglio proprio dai cittadini privati che di quei servizi sono i proprietari/fornitori/utenti attraverso meccanismi di scambio determinati sempre e solo dalle condizioni e dalle situazioni locali, ovvero reali e concrete, e hanno ricaduta positiva diretta proprio sulla comunità. Insomma, niente Stato o strutture analoghe. Utopia? Manco per sogno. Foldvary racconta e spiega bene gli esempi virtuosi, tutti da leggere, in atto oggi negli Stati Uniti, dalla "comunità di proprietà" di Disney World alla Virginia dove sorgono l'associazione civica di Reston e il "condominio" di Fort Ellsworth ad Alexandria, dai "luoghi privati" di St. Louis nel Missouri all'Arden Village nel Delaware. È qui che l'individualismo vero si fa comunitarismo autentico.