Il ragazzino che terrorizzò il duce
Cos'è che scatena azioni furiose e sanguinarie? Di solito la paura. Ma come può fare paura un giovanottone dai modi educati, un intellettuale, uno un po' intransigente, sì, ma che chiaramente non farebbe mai male a nessuno. Eppure il 29 maggio del '31, alle cinque della mattina, ci sono 22 ufficiali della milizia e 462 camicie nere, con fucili e pugnali, nel romano Forte Braschi, per officiare all'esecuzione di Michele Schirru. È un anarchico, colpevole di aver desiderato la morte di Mussolini e colpevole anche, visto che proprio non sapeva come attuare il suo piano, di aver tentato per questo il suicidio. Tra i tanti crimini del fascismo, dall'omicidio Matteotti alle leggi razziali, è stata un po' dimenticata la vicenda di questo idealista trentunenne, ma sì, diciamolo, un po' svitato, elegante e garbato che ha girato mezzo mondo per finire fucilato alla schiena a Roma dopo un processo che sembra scritto da Kafka. Ha disseppellito la storia di Schirru, negli anni Ottanta, un giornalista e storico di razza: Giuseppe Fiori, scomparso nel 2003. Oggi la Collezione Storica Garzanti ripropone questo piccolo classico della storiografia moderna: «L'anarchico Schirru. L'uomo giustiziato per aver pensato di uccidere Mussolini». Pubblicato per la prima volta nel 1983, questo libro è un testo rigoroso e contemporaneamente godibilissimo alla lettura. È la ricostruzione scorrevole, documentata in modo ineccepibile, della vicenda del giovane anarchico e del mondo nel quale si muoveva. Michele Schirru, come lui stesso dichiarò, nacque «in un piccolo paese della provincia di Sassari. Non ebbi un'infanzia di privazioni e di stenti. Mio padre, allora impiegato, guadagnava abbastanza per il mantenimento della famiglia, benché numerosa». Non segue studi regolari, ma è intelligente, si «abbevera all'ideologia socialista», con bravi maestri che nell'isola non mancano. Poi, a vent'anni, visto che allora in Italia, come oggi, gli ideologi abbondavano, ma il lavoro scarseggiava, se ne andò negli Stati Uniti. Tornerà in Italia dieci anni dopo con una ferma intenzione: uccidere Benito Mussolini, perché così tutto quel castello di «non democrazia» che opprimeva il suo Paese «sarebbe cascato da solo». Si procurerà un'arma, e delle bombe. Ma i suoi piani risultano puerili, i suoi «sopralluoghi» attorno alla residenza del duce, Villa Torlonia, e a Palazzo Venezia, sono delle passeggiate. Ma nell'Italia del Ventennio c'è gente che mangia, beve, ingrassa e fa carriera e in qualche modo deve giustificare la sua esistenza. Così l'Ovra, la polizia segreta del regime, sempre famelica di soffiate, segue le tracce di questo anarchico sardo partito dall'America per fare non si sa bene che cosa. E alla fine lo trova. Il giovanottone Michele, simpatico, ben vestito, sembra più un inglese che un italiano, dirà il suo difensore d'ufficio, aveva probabilmente abbandonato l'idea dell'attentato. Frequentava una bella ballerina ungherese: rossa di capelli, occhi blu e lentiggini. Mussolini se l'era scordato. Glielo ricorderà il plotone d'esecuzione che gli spezzerà la vita a trentuno anni.