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Il miracolo italiano? Fu in Sudafrica

L'ingresso nel campo di concentramento

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C'è un «miracolo italiano» che pochi conoscono: quello di Zonderwater. Durante la seconda Guerra Mondiale, più o meno tra il '41 e il '47, fu il più grande campo di prigionia inglese per soldati italiani. Era in Sudafrica, a sud del nulla, a una cinquantina di chilometri da Pretoria. Il campo era lì per un motivo semplice: scappare più che difficile era inutile. Era il nulla in mezzo al nulla. Non c'è bisogno di molti aggettivi per descrivere come poteva essere: clima insopportabile, mosche, poca acqua puzzolente. Lì arrivarono centomila soldati italiani, superstiti della disastrosa avventura coloniale fascista. Ma non si fecero scoraggiare né dalle mosche né dall'acqua puzzolente. Grazie a un comandante inglese illuminato costruirono in quel nulla la città ideale: comoda, dove trionfavano lo sport, soprattutto, e l'arte. Nel deserto i soldati italiani alla fine della guerra lasciarono: due ospedali, trenta chilometri di strade, quindici scuole, ventidue teatri, un monumento. Una vera città, migliore di tante che viviamo oggi, con grandi edifici in muratura, infrastrutture, collegamenti. Quello che «teneva insieme» questa organizzazione sociale era soprattutto lo sport: calcio, pugilato, scherma. E poi il teatro. Nel «miracolo sudafricano» è letteralmente inciampato un bravo giornalista: Carlo Annese, andato in Sudafrica, credeva lui, solo per il viaggio di nozze. E invece no: curioso e intraprendente come devono essere i giornalisti si è imbattuto in questa storia e ha voluto raccontarla nel libro «I Diavoli di Zonderwater». Un po' saggio, un po' romanzo. Bellissima la storia di Giovanni Vaglietti, reduce di Bardia, nome tristemente famoso della campagna, e della disfatta, italiana in Africa Orientale. Catturato all'inizio del '42 era stato nella squadra giovanile del Torino calcio e, arrivando in treno a Zonderwater, con uno sguardo ritrovò la speranza. Così è descritto il suo arrivo, malridotto e disperato, al campo di prigionia: «Mentre il cuore gli batteva più forte, mise a fuoco la scena. Vide i pali di una porta di calcio. Una dozzina di uomini che correvano. E un pallone. Con la mano destra si accarezzò la tasca che conteneva il portafogli. Come faceva nei momenti importanti della vita, pensò in torinese, ad alta voce: "Mi sun fait. Io sono salvo"». Sì era salvo perché il «deus ex machina» di quell'area, il colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo, era un gran brav'uomo e un patito dello sport. Con infinita umanità, e tanto senso pratico, comprese che ai prigionieri doveva dare dignità e, per quello che era possibile, una vita normale. Così puntò sullo sport come alleato: promosse gare di scherma, atletica, ginnastica, oltre a un campionato di calcio che riuscì a far diventare veri divi i prigionieri più bravi. E poi si organizzavano grandi spettacoli teatrali durante i quali, visto che di donne nel campo non ce n'erano, i ruoli femminili erano interpretati, come nell'Inghilterra pre Shakespeare, da travestiti che divennero bravissimi. Necessità fa virtù. Annese ha scritto un libro come se fosse un film. Nei «titoli di coda» ha brevemente raccolto le storie dei protagonisti e dei luoghi dopo le vicende narrate nel libro. Oggi Zonderwater ospita tre carceri (le torrette sono le stesse del '41) e qualche muro smozzicato. Qui la solidarietà e lo spirito sportivo, tanti anni fa, compirono un vero miracolo.

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