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L'operaio «fasciocomunista» che ora racconta il Paese

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Micacome le schermaglie di Paolo Sorrentino, che però, alla vigilia della finale, sentendo sfuggire la vittoria, ha scritto che al premio farebbe bene una sniffata di cocaina. No, Antonio Pennacchi non usa giri di parole, non le manda a dire. Un vizio di famiglia per questo figlio di coloni giunti dal Veneto per la bonifica dell'Agro pontino. Sono sei fratelli, la storia e la vita gli pesa addosso e Antonio, da giovanissimo, fa politica. Ma, a differenza dei suoi fratelli, che aderiscono tutti alle organizzazioni di sinistra, lui sceglie il Msi. Espulso, poi aderisce ai marxisti-leninisti di «Servire il popolo» e fa la contestazione del Sessantotto. Entra in fabbrica, l'Alcatel Cavi di Latina. Ci resterà 40 anni. Diventerà sindacalista. E iscritto al Psi. Non sa stare zitto, prende tutti di petto. Esce dal partito del garofano, lo cacciano dalla Cgil. Su di lui pesa l'accusa, falsa, di essere filo-brigatista. Entra allora nell'UIL, passa al Pci e di nuovo alla Cgil. Arriva la cassa integrazione, Pennacchi dice basta con la politica. Si laurea in lettere, comincia a scrivere. Anche qui colleziona rifiuti. 55 per il romanzo d'esordio (1994) «Mammut». Poi lo accetta Donzelli. L'anno dopo esce «Palude» dedicato alla sua città, nel 1998 «Una nuvola rossa», una storia ispirata al delitto dei fidanzatini di Cori Nel 2001 lascia polemicamente l'editore Donzelli e passa alla Mondadori. Nel 2003 esce l'autobiografico «Il fasciocomunista» con cui vince il Premio Napoli. Il regista Luchetti ne trae il film «Mio fratello è figlio unico», con Riccardo Scamarcio e Elio Germano. La pellicola conoscerà un successo sorprendente al botteghino e vincerà un premio speciale al Festival di Cannes ma Pennacchi polemizza con il regista perché nella seconda parte del film, dice, il libro è stato stravolto. Li. Lom.

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