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Quei diari perduti da Mussolini in fuga

Benito Mussolini

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La valigia dei misteri che appare nel reportage del corrispondente di guerra Bruno von Kayser sulla liberazione di Mussolini dal Gran Sasso d'Italia, il 12 settembre 1943, poteva contenere di tutto ma quasi sicuramente non i fantomatici diari di cui si parla incessantemente in questi giorni. La valigia di Campo Imperatore viene ritirata in ballo puntualmente anche su un altro enigma irrisolto, quello del carteggio con Churchill. Ma che non contenesse documenti di vitale importanza lo si può dedurre solo con argomentazioni a contrariis. Le testimonianze coeve portano a escluderlo, così come ogni analisi approfondita dei fatti. La preparazione di quella valigia avviene nei minuti immediatamente successivi al blitz della compagnia aviotrasportata del Lehrbataillon (2a divisione paracadutisti) del tenente barone Georg von Berlepsch, e quando il comandante responsabile dell'Operazione Quercia, il maggiore Harald Mors, tramite la funivia è arrivato da Assergi all'albergo a quota 2200 metri. Solo allora viene dato l'ordine a un carabiniere di «preparare il bagaglio dell'ex duce, con i pochi vestiti, qualche libro e il ritratto del figlio Bruno, morto il 7 agosto 1941 a Pisa alla cloche di un quadrimotore Piaggio P 108». Il maresciallo Osvaldo Antichi - responsabile ad personam della custodia di Mussolini, su preciso ordine di Badoglio - è colui che sorveglia la preparazione di una piccola valigia legata con lo spago e dichiarerà che contiene «la scarsa biancheria, i libri, il ritratto del figlio Bruno che era stato accanto al suo letto nei giorni di Ponza e della Maddalena». Quando era stato arrestato a Villa Savoia, con sé non aveva nulla. Neppure un ricambio che gli farà avere la moglie Rachele. Se a Campo Imperatore ci fossero stati documenti, lettere e memorie scottanti, non sarebbe stato un semplice carabiniere a riempire quella valigia, e Mussolini non se ne sarebbe disinteressato, nonostante i momenti frenetici che stava vivendo sulla montagna abruzzese. Perché permettere ad altri di frugare tra le sue cose? Il maggiore Harald Mors, che parlò con lui presentandosi come comandante responsabile (anche se poi il capitano SS Otto Skorzeny si arrogherà ogni merito dell'eclatante liberazione dell'ex duce costruendo un mito su una favola), in un'intervista rilasciata a chi scrive, proprio su questo argomento, dichiarò senza esitazioni: «Non chiese di portare nulla con sé». Aggiungendo anche che, se pure l'avesse fatto - e ciò poteva significare che teneva particolarmente a quanto conservato nella valigia - non ci sarebbe stata alcuna possibilità di caricarla a bordo del Fieseler Storch pilotato dal capitano Heinrich Gerlach. Nell'abitacolo del monomotore biposto aveva chiesto e ottenuto di essere preso a bordo Otto Skorzeny, e gli era stato concesso nonostante i rischi che ciò comportava, perché il generale Kurt Student aveva espressamente ordinato che Mussolini dovesse essere scortato fino a Monaco al cospetto di Hitler, dal quale aveva ricevuto personalmente l'ordine di liberarlo; il secondo Storch che doveva caricare l'ufficiale accompagnatore fino a Pratica di Mare, aveva avuto un problema al carrello ad Assergi e quindi non poteva essere utilizzato. La valigia, pertanto, viene presa dai tedeschi e finisce su uno dei camion della colonna di terra che tornerà alla base il 13 settembre. Gli appunti di Mussolini che si rifanno al periodo di prigionia dopo l'arresto a seguito del voto del Gran Consiglio, sono noti, contenuti nei volumi 30, 32, 34 e 35 dell'Opera omnia a cura di Edoardo e Duilio Susmel e sono conosciuti come «Pensieri pontini e sardi», «Pensieri del Gran Sasso d'Italia» e «Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota». Ciò che Mussolini ha da dire e da scrivere, lo dirà a Radio Monaco il 18 settembre e lo scriverà con lo stile e i contenuti che ci sono pervenuti. La parabola politica precipita verso l'epilogo, Mussolini è uno strumento delle mani di Hitler, e ne è consapevole dal momento che ha visto i paracadutisti tedeschi. Gliel'aveva detto Gabriele d'Annunzio, con i suoi toni estrosi, di stare lontano dall'«Attila imbianchino». Ma non era stato ascoltato.

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