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Le nostre vite di corsa contro il tempo che se ne va

Stefano Zecchi

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La vita in fuga. Come può fuggire la vita? Scivola via perché il tempo scorre; la vita si consuma perché il tempo è irreversibile, si dissolve perché il suo tempo l'annienta. Siamo esseri storicamente determinati, e il tempo vissuto ci definisce come soggetti storici. Ecco perché la nostra unica e vera ricchezza è il tempo e, come ogni ricchezza che si teme di perdere, avvertiamo il fluire del tempo come un'ossessione che consuma la nostra esistenza fino a ridurla a nulla. L'ossessione della fine. E' rivelativa l'origine della parola "ossessione": viene dal verbo latino obsidere, "assediare". Ossessionato, dunque, assediato da una forza incoercibile di cui non riesce a liberarsi, l'uomo apparentemente libero si consegna a una forza che ne condiziona la volontà, pur essendo egli assolutamente consapevole dell'insensatezza del suo pensare, fare, decidere. L'ossessione domina il tempo vissuto, determinandolo oltre ogni ragionevolezza. Il titolo di questo incontro aggiunge anche un altro tema - amore del temporaneo - che, se da un lato sembra circoscrivere e mitigare il sentimento ossessivo, offrendogli una parvenza di accettabilità (un'ossessione giustificata da qualcosa per cui ha un senso il patire), dall'altro lo ridefinisce ulteriormente nella sua concettualità. Dunque, se disponiamo in successione i tre termini - ossessione, vita in fuga, amore del temporaneo - ne abbiamo la sintesi: azione. Siamo destinati all'azione; la nostra vita è un'incessante fuga dalla contemplazione. Il tempo della contemplazione appare insignificante di fronte al tempo dell'azione. René Guénon è stato il filosofo contemporaneo più radicale nel sostenere che la perdita del valore della contemplazione rappresenti uno dei motivi essenziali dell'origine della crisi del mondo moderno. Gli occidentali, sostiene, mettono l'azione al di sopra di tutto. La filosofia che meglio rappresenta il dominio economico occidentale, il pragmatismo americano, nega perfino l'esistenza di alcunché di valido al di fuori dell'azione stessa. Guénon ha buon gioco nella contrapposizione: i suoi studi sulla cultura indiana lo portano a privilegiare la forma ontologica del pensiero filosofico-religioso dell'induismo, in cui riscontra il più alto significato della contemplazione come fondamento stesso della verità. L'accesso al vero, attraverso la contemplazione, individua nell'idea di tradizione lo spazio per comprendere l'autenticità del tempo vissuto. Ci avviciniamo così al fondamento dell'ossessione. L'occidente è ossessionato dall'azione, è assediato dal bisogno insopprimibile di agire, e nell'azione si appaga dell'amore per il tempo vissuto finché non viene provocato da quella stessa ossessione per l'azione che, nel momento stesso in cui lo appaga, gli mostra anche il consumarsi del tempo: l'ossessione dell'azione diventa ossessione della fine del tempo. Nella sua riflessione, Guénon spiega come l'azione, non essendo che una modificazione momentanea dell'essere, non possa avere in sé il proprio principio e la propria ragione sufficiente: se non si riconnette ad un principio che vada al di là del suo dominio contingente, è pura illusione, mentre il principio da cui essa può trarre la sua verità è la contemplazione. Per questo Aristotele ha affermato la necessità di un motore immobile, origine di tutte le cose, perché l'azione appartiene al mondo del mutamento, del divenire. Una conoscenza pratica, funzionale agli scopi, degrada in un'agitazione tanto vana quanto sterile: la totalità non può essere generata che da un essere stabile, immutabile. Guénon radicalizza, dunque, la differenza tra contemplazione e azione, e nella subordinazione della contemplazione all'azione coglie l'origine della crisi del mondo moderno. Eppure, oltre le riflessioni di Guénon, rimane la domanda: perché siamo destinati all'azione? E, quindi: davvero è impensabile un riscatto del destino dell'azione? L'agire è soltanto esperienza di un sentimento ossessivo, un assedio dell'intelligenza oltre ogni ragionevolezza, dove l'amore del temporaneo non è che pura illusione, e l'ossessione della fine del tempo è angoscia del nulla? Perché, dunque, siamo destinati all'azione? Proviamo a trovare una risposta. C'è un prologo in cielo che apre il Faust di Goethe. Mefistofele fa notare al Signore che, pur avendo dato all'uomo - unico tra gli esseri viventi - la ragione, questi si comporta peggio delle bestie. Il Signore prova a convincere Mefistofele: gli fa notare che il suo spirito nichilista e distruttivo non ha giustificazione, che la sua visione dissolutrice non corrisponde alla verità, che il suo compiacersi del male gli offusca la mente e non gli consente di capire quanto di buono c'è nell'uomo. Ma Mefistofele non si lascia persuadere. Allora il Signore gli chiede se conosce Faust. Sì, dice Mefistofele, lo conosco, è un uomo ossessionato dalla conoscenza, mai nulla lo appaga. Sarà anche ragionevole, continua il diavolo, ma non sa usare la ragione per capire e affrontare la vita. Il Signore conviene che il suo Faust è ossessionato da un grande desiderio di conoscere, di sperimentare (...). Ecco allora il patto di Mefistofele con il Signore. Anche se Faust può sembrare così saggio e razionale, io, dice il diavolo, lo porterò sul mio sentiero di corruzione. E non sarà un compito difficile, osserva Mefistofele, proprio perché c'è in Faust quell'ansia inesausta, quella volontà di azione, quell'eterno bisogno di operare che, alla fine, nonostante le buone intenzioni, travolge nel nulla tutto quanto è stato creato.

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